mercoledì 29 aprile 2020

Cantone Ticino:Svizzera felix


Ma quale ripartenza !

I lavoratori sono importanti per l’economia, per far ri-partire il paese, è per questo che li pagano una bischerata e li fanno “scoppiare in diretta”, tanto c’è l’esercito di riserva, tutti gli altri che stanno pure peggio e pronti a prendere il posto dei “caduti”.
Tra di loro ci sono quelli che hanno la prima e seconda casa poco fuori dal confine,  il Suv a leasing infinito, i figli agli studi e la moglie con i lavoretti in nero. Arrivano, pernottano da amici e si vantano di puntellare il sistema sanitario con la complicità dei politicanti locali che non hanno mai fatto un cip sul “numero chiuso” negli atenei per le facoltà di medicina.
Tralasciamo i laureati, diciamo così, “operativi”,inchiodati a casa dei genitori da salari che non garantiscono l’autonomia finanziaria in un cantone che ha i prezzi al dettaglio di Zurigo e gli stipendi di Reggio Calabria.
Questo prima che il Covid-19 venisse a rivitalizzare l’aria, le casse dell’AVS-AI, azzerare convenevoli di facciata e un sacco di altre inutilità.
Il dopo non sarà certo quello sbandierato su alcuni balconi insubrici, la recessione a cui andiamo incontro non si esaurirà in breve tempo perché non esiste alcuna idea (volontà politica) di fornire strumenti per aumentare il potere d’acquisto dei cittadini e capitali da investire non a strozzo di chi le tasse le paga su tutti i redditi conseguiti.
Quindi anche se il virus pare si sia rotto le scatole di soggiornare nelle nostre valli, perdete ogni speranza di  cambiamento, voi che restate !
Siamo un popolo di “allineati” che sta con i “fratelli” franco-tedeschi per convenienza, visto che i vicini italioti, quando non servono, sono ritenuti sempre più impresentabili.


Ottimismo di regime


Libano:Banche sotto tiro

https://secoursrouge.org/liban-manifestations-et-attaques-de-banques-a-lexplosif/

venerdì 24 aprile 2020

Solo questo vale una rivoluzione

Diciotto sanitari che hanno denunciato le condizioni in cui sono stati costretti a lavorare, e tanti vecchi a morire, rischiano il licenziamento. Se un sistema di potere può produrre e legittimare una rappresaglia del genere, prima o poi verrà spazzato via.


Uno schifo, diciotto sanitari del Don Gnocchi che hanno denunciato la direzione dell’istituto su come ha gestito il coronavirus, provocando più di cento morti in un mese, sono stati sospesi dal lavoro dalla Anpast ditta di cui sono dipendenti. Entro cinque giorni devono giustificarsi e poi saranno presi i provvedimenti del caso. Rischiano il licenziamento. Sono eroi finché si contagiano e muoiono per curare i malati da coronavirus anche senza mezzi di protezione, sono eroi quando vengono usati come testimonial per far emergere il buon operato del governo.
Sono eroi quando servono per uno scatto fotografico che spinga tutti al sacrificio fino a perdere le forze, ma appena alzano la testa e denunciano con prove inconfutabili le ignobili condizioni in cui sono stati costretti a lavorare, denunciano come tanti vecchi sono stati abbandonati alla morte con cinismo, allora diventano gente da far fuori, di cui liberarsi con una raccomandata, una punizione esemplare per aver parlato, aver scritto ai giudici, aver rilasciato interviste ai giornalisti.
Dal loro posto di comando non sono stati sospesi direttori e direttrici di queste case di cura, stanno dietro la scrivania come se niente fosse successo, risponderanno alla magistratura tramite i loro avvocati con i tempi e i modi necessari a far dimenticare ogni cosa. Eppure le accuse sono gravi, epidemia e omicidio colposo.
Ora c’è da chiedersi: dove è tutto quel “popolo italiano” che si è commosso via social davanti a tanti angeli col camice bianco, dove sono finiti tutti i ringraziamenti al loro eroico sacrificio se nessuno insorge di fronte a questo atto di rappresaglia che la direzione del Don Gnocchi ha chiesto e la ditta di cui sono dipendenti ha messo in atto? E’ questa la reale possibilità di lavorare in sicurezza quando appena si denuncia una situazione di effettivo pericolo la prima risposta è l’allontanamento, il licenziamento, la vendetta? Un’azione per mettere a tacere tutte le critiche e spaventare chi sa cosa è successo e non ha il coraggio di parlare. Le responsabilità dei dirigenti deve essere nascosta, la gente imbavagliata.
Se anche il personale sanitario viene punito per aver detto la verità sulle mancate misure di sicurezza che hanno provocato centinaia di morti, questa democratica società è perduta. Ma non tanto per la lettera di sospensione, si potrebbe attribuire l’atto ad un funzionario troppo vendicativo, quanto per il silenzio che copre la vicenda, per l’omertà generale da parte dei mezzi d’informazione nel minimizzare questa che è una vera e propria ritorsione.
La direzione di Ampast, su dettatura del Don Gnocchi, si è permessa di scrivere nella raccomandata fatta pervenire ai dipendenti che l’allontanamento si è reso necessario per una caduta del rapporto di fiducia nei loro confronti. Semmai si dovrebbe parlare della caduta di fiducia di tutta società nei confronti di chi comanda al Don gnocchi e della ditta AMPAST, caduta di fiducia dovuta alla morte di tanti vecchi ricoverati, che avrebbe dovuto provocare un loro immediato allontanamento, dalle cariche e dai rispettivi stipendi d’oro.
Ma se un sistema di potere può produrre e legittimare una rappresaglia del genere in piena pandemia, con tanti morti sulla coscienza e far punire chi è stato in prima linea nella lotta al coronavirus, prima o poi verrà spazzato via. È bene che le classi che sono al potere non dimentichino mai che le grandi rivolte nascono anche da soprusi che in tempi di normalità sono sopportabili ma che diventano, in tempi di alta tensione sociale, la benvenuta goccia che fa traboccare il vaso.
E.A.
Fonte: operaicontro.it

Gli USA e gli amici del Partito comunista italiano

«Alla fine degli anni 70 l’ambasciata americana a Roma era in rapporto con 9 dei 32 membri della Direzione del Partito comunista e con 25 dei suoi 169 membri del Comitato centrale. A livello periferico i consolati avevano contatti con circa 80 segretari delle strutture regionali e provinciali o con eletti locali del Pci». La restituzione del contesto storico sbriciola il principale movente che ha alimentato la letteratura dietrologica negli ultimi decenni – Leggi qui la Prima parte

l64JUbfj5E-0aVBwXDbSHZf48vqgkINf1fhL9nOEAY67JU20qBIxZt0dd9V35iH5UHZBixmxd1BO0w4glIPLak-qresimP4ykpHXMCSsvVRki6OixhzcC48MZfhh2EL66PeltAzPkwFBWL4Dalla metà degli anni Settanta il Pci e l’ambasciata americana avviano una sorta di «politica dei contatti», una tessitura che passava attraverso relazioni di vario livello, soprattutto riservate, in alcune circostanze molto formali anche di natura pubblica, con esponenti della diplomazia e dell’intelligence statunitense. Eurocomunismo e compromesso storico, le due novità politiche introdotte da Berlinguer, avevano dato al Pci un rilievo internazionale attorno al quale ruotava l’inevitabile attenzione e l’interesse delle cancellerie occidentali per capire meglio i possibili sviluppi della situazione, adeguarsi alla possibile entrata nel governo del più importante partito comunista d’Occidente che alle elezioni regionali del 1975 aveva compiuto un balzo di 5 punti, minacciando il primato trentennale della Dc.
Il rapporto Boies

Proprio nel 1975 fu preparata una relazione, nota come Rapporto Boies, dal nome del primo segretario dell’ambasciata degli Stati uniti a Roma, Robert Boies, estensore del testo e forse funzionario della Cia sotto copertura, nel quale si prospettava l’arrivo al potere nel breve periodo del Pci. L’opinione però era in contrasto con le convinzioni del segretario di Stato, Henry Kissinger, e per queste ragioni non produsse effetti immediati; tuttavia, come ha spiegato il professor Joseph La Palombara, era condivisa da molti1. D’altronde, prosegue La Palombara, «vari personaggi che all’epoca testimoniarono al Congresso sul “caso Italia” ne erano convinti, e le elezioni del 1976 confermarono l’onda lunga comunista. Scrissi in quel momento che m’aspettavo anch’io il Pci al governo, ma non da solo e non senza problemi»2. La Cia sosteneva la necessità di aprire rapporti con il Pci e di individuarne gli interlocutori giusti in vista di un suo probabile accesso al governo e l’analisi di Boies era frutto di un lavoro protratto nel tempo: il 13 agosto 1974, infatti, Sergio Segre, responsabile della sezione Esteri del Pci, aveva già riferito a Berlinguer di alcuni incontri avuti con Boies poco tempo prima del suo rientro negli Stati uniti. In procinto di lasciare l’ambasciata, Boies aveva quindi presentato a Segre il suo successore, Martin Arthur Weenick. Nel corso di quell’incontro – riferisce Segre – il nuovo primo segretario dell’ambasciata Usa aveva ritenuto maturi i tempi di «un dialogo fruttuoso» tra le parti «superando le barriere di questi anni»3.
La politica dei contatti
Prima del 1975, scrive Silvio Pons, Segre era stato il solo esponente del Pci ammesso ad avere rapporti con l’ambasciata americana4, ma dal 1975 anche Luciano Barca entrò a far parte di quella dinamica. E fu proprio Barca a raccontare per primo l’incontro tra un membro della Direzione del Pci ed emissari del governo degli Stati Uniti: «Nel giugno del 75, per iniziativa americana il primo segretario dell’ambasciata americana Weenick, con la motivazione di voler meglio capire la politica economica del Pci, prende contatto con me (ovviamente autorizzato da Berlinguer). È la prima volta che viene stabilito un contatto diretto con un membro della Direzione del Pci, anche se mascherato da interesse per le nostre proposte economiche. In realtà questo interesse non era solo una maschera tanto che al secondo incontro partecipò anche il rappresentante del Tesoro americano. Poiché gli incontri cominciarono ad essere periodici e ad entrare sempre più in questioni politiche decidemmo con Berlinguer di porre a Weenick la necessità di incontrare, prima di una nuova colazione, Giancarlo Pajetta, membro della Segreteria e nostro «ministro degli Esteri». La richiesta spaventò evidentemente l’ambasciatore e il Dipartimento di Stato perché bloccò per circa due mesi gli incontri. Alla fine entrambi accettarono un mio invito a pranzo da Piperno [noto ristorante situato nel Ghetto a Roma. Ndr]. Il primo contatto fu brusco. Pajetta si presenta ed esordisce così: “Non riesco a capire perché un membro della segreteria del Partito comunista – lui era molto conscio del suo ruolo, io l’ho visto anche all’estero, è un vero ministro degli esteri, difensore in tutte le occasioni della dignità italiana – non debba avere paura di incontrare un alto ufficiale della Cia, e un alto ufficiale della Cia debba aver tanta paura di me”. Così è iniziato l’incontro, e Weenick, da buon incassatore, ha risolto tutto sorridendo»5. Alla vigilia del primo incontro Barca aveva cercato di capire se il funzionario dell’ambasciata americana fosse un uomo della Cia: «Mi fu detto di sì e mi fu specificato che come tale era stato espulso da Mosca, a causa dei contatti che cercava con i dissidenti sovietici»6. Che Weenick fosse veramente un agente sotto copertura della Cia incaricato di raccogliere da fonti dirette informazioni sulla evoluzione del Pci non è del tutto certo (ed è anche secondario), e anni dopo Barca ricevette una diversa informazione che situava il funzionario alle dipendenze del Dipartimento di Stato. Ciò che risulta rilevante sul piano storico è il fatto che due importanti dirigenti del Pci, su mandato del segretario e della sezione Esteri del partito, si incontrarono per diverso tempo con un funzionario che consapevolmente ritenevano essere un membro dell’agenzia di intelligence Usa. L’esito degli incontri fu molto positivo, tanto che poi «sono cominciati ad arrivare altri americani, anche quelli della Exxon tra gli altri, tutti in cerca di assicurazioni nel caso il Pci andasse al governo. Noi a tutti esponevamo la nostra politica: non volevamo nazionalizzare, ma anzi volevamo vendere molte aziende Iri non strategiche. Ciò li tranquillizzava. Molti rappresentanti di gruppi americani, forse perché vittime della corruzione dilagante in Italia e del crescente intreccio tra affari e politica, apprezzarono molto il discorso di Berlinguer sull’austerità (1977) che mostrarono di aver capito meglio della destra del nostro partito»7. Tra i cablo inviati dalla sede diplomatica romana al dipartimento di Stato ce n’è uno del 2 maggio 1978 che riferisce il risultato di una delle conversazioni periodiche che Barca teneva con i funzionari dell’ambasciata, svoltasi il 20 aprile precedente. Vi si può leggere che «l’alto esponente del Pci ci ha detto che il suo partito resta fermamente contrario a negoziati che portino a concessioni ai rapitori di Aldo Moro» e ha «fornito al governo delle informazioni su ex membri del Pci che adesso si ritiene stiano cooperando con i terroristi dell’estrema sinistra». «Sin dal rapimento – sono le parole di Barca riportate nel cablo – nel corso dell’ultimo anno il Pci ha consegnato al ministero degli Interni informazioni anche su alcuni nostri amici che riteniamo stiano partecipando a gruppi delle Br presenti in certe aziende come Sip e Siemens». Alle osservazioni del funzionario che lamenta un articolo di Macaluso apparso su l’Unità nel quale si suggerisce il coinvolgimento della Cia nel rapimento Moro, Barca replica: «La direzione del Pci ha ordinato, a lui e altri, di astenersi dal ripetere tali accuse senza fondamento poiché il Pci non ha alcun elemento che possa suggerire un coinvolgimento della Cia nel rapimento»8.
Carter e “la diplomazia delle conferenze”
Con l’arrivo alla Casa Bianca di Jimmy Carter, nel gennaio 1977, trovò nuovo slancio la «diplomazia delle conferenze» ossia l’idea di ricorrere alla politologia come arma diplomatica, invitando negli Usa gli esponenti dell’Eurocomunismo a tenere dei cicli di lezioni nelle università. Sostenere lo sganciamento dei partiti comunisti occidentali dalla sfera d’influenza sovietica rientrava nella strategia americana, che mirava a rafforzare le spinte di dissenso all’interno del campo socialista. «Prima di fare una richiesta formale all’amministrazione abbiamo comunque sondato l’ambiente», racconta La Palombara: «Cyrus Vance [il nuovo segretario di Stato] lo conoscevo da prima, in qualità di membro del consiglio d’amministrazione della Yale University. “Zibig” Brzezinski, che ora era consigliere per la Sicurezza nazionale, avrebbe già potuto dirci se l’idea era ok». Anche il presidente Carter era informato, spiega La Palombara, «perché Brzezinski non era certamente in grado, da solo, di mutare la politica dei visti ai dirigenti comunisti. A tal fine, inoltre, occorreva un lavoro di preparazione con il Congresso americano, e con i nostri sindacati, Afl-Cio, da sempre ferocemente anticomunisti. Insomma non bastava che Brzezinski bussasse allo studio ovale, soprattutto dopo le elezioni italiane del 1976»9.
 Tra coloro che si attivarono per creare un canale di comunicazione tra la nuova amministrazione statunitense e il Pci troviamo Franco Modigliani, futuro premio Nobel per l’economia, che venne più volte consultato dal Dipartimento di Stato sulla situazione economica e politica italiana. Questi aveva consigliato l’apertura al Pci e alla Cgil, ritenuti i soli in grado di arginare la protesta sociale e far accettare i sacrifici richiesti. Nel corso del 1976 aveva più volte incontrato Napolitano, in quel momento responsabile del settore economico del Pci10.
La diplomazia personale di Giorgio Napolitano
Nel novembre del 1976, dunque prima dell’insediamento ufficiale di Carter, giunse in visita a Roma il senatore Ted Kennedy. Sembrò l’occasione ideale per un incontro con un esponente del Pci, o almeno questa era la convinzione di Napolitano che, sia pur privo di incarichi nella politica estera del partito, fece di tutto per accreditarsi. L’entourage del senatore Kennedy agì in modo prudente e sotto stretta osservazione dell’ambasciata, che riferiva ogni suo movimento al Dipartimento di Stato. Oltre al presidente della Repubblica Leone, al presidente del consiglio Andreotti e al presidente della Fiat Gianni Agnelli, i politici ammessi agli incontri ufficiali furono solo i segretari della Dc, Zaccagnini, e del Psi, Craxi. Il responsabile dell’ufficio Esteri del Pci, Sergio Segre, ricevette un invito unicamente per la cena di cortesia insieme ad altri 30 ospiti. Kennedy non volle che l’evento fosse fotografato e l’ambasciatore Volpe riportò a Kissinger ogni minimo dettaglio, anche la disposizione a tavola degli invitati. In quella circostanza, riferisce Volpe in un documento stilato per il Segretario di Stato, «ci risulta che siano stati fatti almeno tre tentativi per inserire l’esperto economico del Pci, Napolitano, nella lista degli incontri, ma la squadra di Kennedy ha rifiutato»11. Una dimostrazione della pervicacia del personaggio e della propensione a tessere una sua diplomazia personale accanto a quella del partito.
La politica di «non interferenza, non indifferenza»
Nel marzo del 1977 arrivò da parte della nuova amministrazione democratica un primo prudente segnale di cambiamento: il segretario di Stato Vance e il ministro del tesoro Michael Blumenthal stilarono un memorandum per il presidente dove si tracciavano le linee della cosiddetta politica di «non interferenza, non indifferenza», riguardo alla scelte che il governo di Roma avrebbe effettuato nel caso di un coinvolgimento del comunisti nell’esecutivo. Una strategia che modificava l’interventismo praticato da Kissinger durante le presidenze Nixon e Ford. Nello stesso documento si davano indicazioni meno rigide sui visti d’ingresso da rilasciare ai dirigenti del Pci e si fornivano nuove direttive sulla «politica dei contatti» da tenere con gli esponenti di quel partito. Era questo il quadro all’interno del quale doveva operare il nuovo ambasciatore scelto da Washington: Richard N. Gardner, giovane avvocato e professore di diritto internazionale alla Columbia University12. Divisa al suo interno su quelli che sarebbero stati gli sviluppi della situazione politica italiana, l’amministrazione statunitense assumeva una posizione di prudenza, e apparentemente attendista, che in sostanza chiedeva al Pci di fornire le conferme del proprio mutato atteggiamento in politica internazionale, dando prova della propria affidabilità, prima di essere chiamata ad assumere una diversa posizione nei suoi confronti. Gardner aveva il compito di svolgere, come vedremo, questa «politica degli esami», un delicato lavoro di approfondimento e verifica. «Ricevemmo dettagliate istruzioni dal dipartimento di Stato – scriverà nelle sue memorie – che consentivano un approfondimento dei contatti con il Partito comunista», estese anche a funzionari del Pci con o senza incarichi pubblici ma con modalità che non suscitassero «l’impressione che i comunisti avessero improvvisamente guadagnato il favore americano». Fu così che Martin Weenick, il funzionario addetto ai rapporti con il Pci che aveva già contatti regolari con Sergio Segre e «occasionali con altre tre o quattro persone», poté «vedere anche membri di spicco della segreteria del partito, come Pajetta e Napolitano»13.
Ramificazione dei contatti tra esponenti Pci e funzionari dell’ambasciata
L’estensione e l’approfondimento di queste relazioni fu tale che, racconta sempre l’ambasciatore, in un bilancio «della nostra politica dei contatti eseguito due anni dopo risultò che in quel momento l’ambasciata era in rapporto con 9 dei 32 membri della Direzione del Partito comunista e con 25 dei suoi 169 membri del Comitato centrale»14. A livello periferico i consolati avevano contatti con circa 80 segretari delle strutture regionali e provinciali o con eletti locali del Pci. Un rapporto della sezione politica dell’ambasciata riassumeva in questo modo la situazione: «Riteniamo un successo il programma di contatti. Ampliarli ci ha consentito di avere una più approfondita comprensione del partito e di formulare su di esso giudizi più accurati. Abbiamo avuto abbastanza successo nell’anticipare le sue mosse»15. Una ulteriore conferma di questa ramificazione e della profondità dei contatti tra diplomatici dell’ambasciata e apparato del Pci viene da una nota del 1 aprile 1978 nella quale il segretario della federazione provinciale di Piacenza, Romano Repetti, riferiva sull’incontro avuto con il console americano di Milano, Thomas Fina. Nella stessa occasione il console aveva visto anche responsabili della Cgil. Obiettivo del console era sondare le opinioni dei gruppi dirigenti provinciali, capire quanto la linea del gruppo dirigente centrale trovasse adesione nei vertici periferici. Tra i temi affrontati, al primo posto ci fu il sequestro Moro. «Il Console ha osservato – scrive Repetti – che esso avrebbe in qualche modo avvantaggiato il Pci perché aveva fatto superare alla base comunista lo scontento per la composizione del governo e perché qualificava il nostro partito nella pronta e concorde approvazione delle misure di rafforzamento dell’azione delle forze dell’Ordine e della Magistratura contro la criminalità. Ha manifestato la sua sorpresa per la grande risposta unitaria dei lavoratori nella giornata del rapimento, rilevato che per la prima volta nelle manifestazioni le bandiere rosse erano mescolate con quelle della Dc. Ha chiesto se il nostro partito aveva ordinato agli operai di uscire dalle fabbriche. Ha espresso interesse e meraviglia per quello che gli ho spiegato essere il naturale comportamento dei sindaci in circostanze come queste, cioè di convocare immediatamente riunioni con i dirigenti dei partiti e dei sindacati per concordare e promuovere iniziative unitarie»16. Nel luglio successivo il console approfondì i suoi contatti incontrando «due dozzine di funzionari Pci» della Lombardia arrivando alla conclusione che il «Pci in questa regione ha attraversato dei cambiamenti fondamentali» fino al punto da «far dire a molti responsabili locali sostanzialmente onesti che essi sostengono il modello di democrazia occidentale, inclusa la lealtà a Comunità europea e Nato». Il giudizio tuttavia non era condiviso dall’ambasciata di Roma che in un cablo del 19 luglio parlava di «conclusioni troppo ottimistiche» che a giudizio dell’ambasciatore Gardner non trovavano riscontro tra i dirigenti nazionali del partito17.
«Basta con la Dc», il dibattito in via Veneto
Il 3 marzo Allen Holmes, vice di Gardner e soprattutto Deputy Chief of Mission, ovvero diplomatico più alto in grado in via Veneto – perché Gardner era un ambasciatore di nomina politica – firmò un telegramma di undici pagine intitolato A dissenting of American politicy in Italy nel quale mostrava di dissentire radicalmente dalla politica estera statunitense condotta fino a quel momento in Italia. Il testo metteva informa un’opinione minoritaria ma presente nell’amministrazione Carter, che riteneva ormai superata «l’attitudine interventista» e la convinzione che l’Italia dovesse ancora essere considerata «una nazione a sovranità limitata»18. Il diplomatico suggeriva a Washington una «revisione politica che deve affrontare i fatti», i quali mostravano che l’alleanza con i democratico-cristiani aveva comportato «diversi svantaggi», trasformando l’America in «un fattore della politica interna italiana» che «ci porta a sminuire i fallimenti della Dc e a sopravvalutare la sua capacità di autoriformarsi». Il bilancio, secondo Holmes, era fallimentare: «Dovremmo essere onesti e ammettere che la perpetuazione al potere di un singolo partito non significa avere una democrazia sana» e che se in trent’anni gli Stati uniti non sono riusciti a «rafforzare la democrazia in Italia farebbero bene a lasciar perdere». Per il vice di Gardner andava rivisto «l’immutabile atteggiamento rispetto al Pci che invece sta cambiando»; a suo avviso l’amministrazione Usa era ferma «alle analisi del 1950 che lo descrivevano come il partito dei poveri mentre l’arricchimento della popolazione ha portato a un suo rafforzamento» e «la tradizione rivoluzionaria del Pci non è quella russa, i comunisti italiani non sanno nulla del comunismo russo e i suoi leader sono intellettuali marxisti dell’Ovest non dell’Est». Per il Deputy Chief di via Veneto, «la collaborazione con il governo Andreotti dal 1976, gli atteggiamenti responsabili sull’ordine pubblico, le posizioni moderate sull’economia, la formale accettazione della Nato e della Comunità europea, il discorso di Berlinguer al XIV Congresso del partito e la decisione della Cgil di abbandonare l’Organizzazione internazionale del lavoro [non potevano essere considerate] operazioni di facciata»192/continua
Fonte: Paolo Persichetti in, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2007

sabato 18 aprile 2020

Dopo Covid-19

I lavoratori sono importanti per l’economia, per far ripartire il paese. È per questo che li pagano una minchia e li fanno crepare sul lavoro, tanto c’è l’esercito di riserva, cioè tutti gli altri che stanno pure peggio e pronti a prendere il posto dei caduti...

venerdì 17 aprile 2020

Svizzera felix. I padroni vogliono riaprire, a tutti i costi

Mikron, i padroni mostrano le loro intenzioni per il dopo pandemia
Non a caso, e proprio in concomitanza con i segni di un allentamento delle limitazioni alle attività industriali in Ticino, una delle più importanti aziende del settore metalmeccanico ticinese e svizzero ha annunciato che licenzierà quasi un terzo dei suoi dipendenti.
È di poco fa la notizia che la Mikron di Agno ha annunciato il licenziamento di 110 dei suoi dipendenti sui 330 che conta in organico. Una vera mazzata!
Naturalmente l’azienda si è subito premurata a dire che farebbe male chi pensasse che tale decisione sia direttamente connessa con la crisi legata al coronavirus e alle sue conseguenze dal punto di vista produttivo su scala planetaria (ricordiamo che la Mikron è un’azienda fortemente orientata verso l’esportazione); e noi le crediamo perché, ne siamo sicuri, la crisi della Mikron, e con lei di interi settori produttivi non solo a livello nazionale ma internazionale, non data di questi ultimi giorni. Basti pensare, ad esempio, alla crisi profonda che ha investito il settore della produzione automobilistica.
Infatti è dall’inizio dello scoppio della crisi del coronavirus che insistiamo sul fatto che la pandemia altro non è stata, dal punto di vista della crisi economica, che la scintilla che ha fatto scoppiare il tutto.
Mikron è poi recidiva poiché già pochi mesi fa aveva già soppresso altri 25 posti di lavoro, sempre ad Agno, e questo dopo aver ricorso al lavoro ridotto, scaricando quindi i costi su lavoratori e Stato.
Il caso Mikron illustra bene quale sia la logica padronale che, purtroppo sempre più, vedremo manifestarsi nei prossimi mesi. Una logica costruita sulla costante e sempre maggiore valorizzazione del capitale: cioè producendo profitti e redistribuendoli agli azionisti. È quanto è avvenuto negli ultimi anni ed è quanto l’azienda intende fare anche nei prossimi anni: da qui la decisione di distruggere capitale (in questo caso “capitale umano”) per permettere che eventuali minori profitti possano comunque mantenere, o addirittura aumentare, il tasso di redditività del capitale. È questa la logica che le aziende metteranno in campo per rispondere e risolvere la crisi. In questo senso, come abbiamo spesso ripetuto, i licenziamenti di centinaia di persone non sono, per l’azienda, un problema, ma la soluzione del problema di redditività con il quale si trova confrontata.
D’altronde Mikron viene da anni di grandi successi. Basti ricordare, ad esempio, che nel 2018 l’utile netto per collaboratore è passato dai 784 FR. a 8’584 FR.: una progressione eccezionale. Per gli azionisti (tra i quali spicca, con il 46% la holding del gruppo Amman) tra dividendi e riacquisto di azioni hanno ricevuto qualcosa come 5 miliardi di franchi, quattro volte più di quanto avevano ricevuto nel 2017.
Ma anche il 2019 per il gruppo Mikron, malgrado i segni manifesti, nel secondo semestre, di una crisi della congiuntura a livello internazionale, è stato un anno complessivamente positivo. Certo non eccezionale come il 2018, ma certamente positivo. Infatti, già lo scorso 23 gennaio l’azienda, comunicava che nel 2019 il fatturato complessivo è comunque aumentato del 4,1% e che, alla fine, l’utile aziendale del Gruppo Mikron ammonta a 8,8 milioni di CHF (anno precedente: 12,2 milioni di CHF) ovvero a 0,54 CHF per azione (anno precedente: 0,74). E il 16 marzo 2020, in piena crisi coronavirus, il consiglio di amministrazione decideva una remunerazione complessiva di 6 cts per azione: certo meno dei 20 cts dello scorso anno, ma comunque segno di un risultato più che positivo. Alla fine il buon senso (o la preoccupazione di difendere la propria immagine visto che si pensava già di annunciare i licenziamenti) il 9 aprile 2020 il Consiglio di amministrazione decideva di rinunciare alla distribuzione del dividendo, decisione poi confermata dall’assemblea degli azionisti del 16 aprile. In questo modo la famiglia dell’ex consigliere federale Schneider Amman, che come detto controlla il gruppo con oltre il 40% del capitale azionario, potrà raccontare che anche lei ha deciso di fare sacrifici: e che, per il bene della continuità dell’azienda, si richiede il sacrificio di 110 posti di lavoro.
D’altronde la cosa non sorprende, visto che i quadri dirigenti dello stabilimento di Agno, punto forte del gruppo, fanno anche parte dei vertici di AITI, l’associazione padronale presieduta da Fabio Regazzi. I comportamenti di un’azienda rappresentativa di AITI mostra quale distanza vi sia tra le ipocrite parole del presidente di AITI e i comportamenti suoi e dell’associazione che dirige (atteggiamento che abbiamo già segnalato nelle scorse settimane, quando l’azienda di Regazzi è stata una delle più pervicaci nel tentare di far lavorare a tutti i costi i propri dipendenti). Quante Mikron ci aspettano nel dopo-pandemia? Gli orientamenti padronali ci indicano che rischiano di essere molte. È necessario quindi un intervento straordinario che impedisca tutto questo. Per questo, già all’inizio della pandemia, abbiamo rivendicato una moratoria su tutti i licenziamenti almeno fino alla fine del 2020. Che il governo usi il potere straordinario che si è arrogato per difendere questi preziosi posti di lavoro che la sete di profitto padronale rischia di mettere in discussione. Mikron deve ritirare questi licenziamenti! Per le organizzazioni sindacali questa vicenda deve essere una chiara conferma della impossibilità di scendere a patti con il padronato, nell’ambito di improponibile e incredibili “patti di paese” che altro non sono se non la consegna dei lavoratori e dei loro destini nelle mani del padronato. E della necessità di battersi, a cominciare dalla Mikron, contro tutti i licenziamenti e i peggioramenti delle condizioni di lavoro e salariali.
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L’MPS si esprime contro la riapertura delle scuole dell’obbligo prevista per l’11 maggio
Il Movimento per socialismo ribadisce la propria opposizione ad una eventuale riapertura delle scuole che potrebbe intervenire, sulla base delle decisioni annunciate ieri dal Consiglio Federale, a partire dal prossimo 11 maggio per le scuole dell’obbligo.
Se attuata una decisione del genere potrebbe avere ripercussioni molto pesanti dal punto di vista sanitario per più ragioni:
 Se è vero che i bambini e i ragazzi sono colpiti più raramente dal virus, ci pare di poter affermare che, sulla base dei rilevamenti di tipo epidemiologico nonché di numerosi studi scientifici condotti in diversi paesi, essi restano un importante vettore della diffusione del virus. Appaiono quindi abbastanza ardite le dichiarazioni fatte ieri dall’esperto del Consiglio federale secondo cui i bambini non sarebbero vettori della diffusione del virus. In questo contesto appare verosimile che la riapertura delle scuole incrementerebbe la diffusione del virus con tutte le conseguenze sanitarie (seconda ondata) che gli esperti paventano.
 Solo chi ha poca dimestichezza con la vita quotidiana nelle nostre scuole e con le condizioni di insegnamento può sostenere che sia possibile trovare forme di riapertura della scuola che garantiscano il rispetto delle cosiddette norme igieniche e di distanziamento sociale. Basti pensare all’elevato numero di allievi in alcune sedi di scuola (vi sono sedi di scuola media con oltre 600 allievi), all’ancora cospicuo numero di classi che hanno più di 20 allievi, alla distribuzione delle sedi sul territorio (con la necessità di trasporti in comune), alla presenza e necessità di strutture logistiche (mense): tutto questo depone chiaramente a sostegno
dell’impossibilità di riaprire la scuola rispettando le cosiddette norme igieniche e di distanziamento sociale.
Appare oggi evidente che questa svolta verso il ritorno a scuola “accompagna”, agli occhi del padronato e della classe politica sensibile alle sue richieste, la volontà di allentare i divieti e di tornate ad una più o meno normale e piena attività produttiva.
L’MPS non condivide tale fretta e pensa quindi che questa prospettiva non possa in nessun modo giustificare la riapertura delle scuole. Le scuole non sono e non dovrebbero essere “luoghi di accudimento”: anche laddove questa funzione esiste comunque (asili nido e scuola dell’infanzia in particolare) deve sempre prevalere la dimensione di socializzazione educativa di queste strutture.
Sicuramente, per alcune famiglie possono esserci dei problemi di accudimento (pensiamo a chi lavora nel settore sanitario, ad esempio) e siamo coscienti del fatto che esista un problema di “tenuta psicologica” di bambini e adolescenti, che per più mesi si trovano impossibilitati a socializzare: ma allora ci pare più consono avviare la discussione e la realizzazione di strutture (che possono anche avere come base le strutture scolastiche) che permettano questa presa a carico, ricorrendo a personale specializzato (compresi anche docenti) che costruiscano percorsi con questi giovani che, tuttavia, non possono essere considerati percorsi di tipo scolastico.
In queste settimane i docenti e i ragazzi sono stati chiamati ad uno sforzo notevole per implementare l’insegnamento a distanza. Certo, lo abbiamo detto e lo ripetiamo, questa forma di scuola non è quella che più ci piace e ha sicuramente dei limiti. Crediamo però che la soluzione non sia quella di aprire le scuole e esporre docenti, personale amministrativo e genitori ad un rischio di contagio. Sarebbe opportuno utilizzare questo tempo per migliorare l’insegnamento a distanza, studiare e portare avanti forme concrete di sostegno a quegli allievi che fanno più fatica a seguire la formazione (cosa assolutamente fattibile mantenendo le distanze sociali) piuttosto che ritrovarsi dopo due settimane di scuola a dover richiudere (ipotesi formulata anche da diversi esperti del settore sanitario) e dover ricominciare tutto daccapo. Alla faccia della continuità pedagogica e didattica!
In questa prospettiva è necessaria avviare celermente la discussione su come concludere l’anno scolastico e risolvere tutti i problemi che sicuramente verranno posti dalla sua mancata ripresa.
Su questo punto l’MPS, pur formulando alcune suggestioni qui di seguito, ritiene decisivo che le decisioni vengano prese con una consultazione ampia dei docenti; che deve avvenire non solo attraverso la formale consultazione delle organizzazioni degli insegnanti, ma cercando di coinvolgerli anche direttamente: quante volte in passato il DECS ha sottolineato il valore delle risposte individuali (spesso on line) alle diverse consultazioni?
Concretamente l’MPS ritiene che si potrebbe lavorare attorno a questi elementi:
scuola elementare
tutti gli studenti verrebbero promossi alla classe successiva
scuola media
tutti gli studenti verrebbero promossi alla classe successiva. Agli studenti di IV media verrebbe rilasciata una licenza senza menzione (accesso alle SMS o no), da accompagnare con un’informativa alle famiglie riguardante i criteri con cui scegliere con pertinenza il percorsi post-obbligatorio per i propri figli.
scuola media superiore
Tutti gli studenti delle classi intermedie verrebbero promossi su decisione del consiglio di classe, che terrebbe in considerazione i risultati del primo semestre, quelli conseguiti fino al momento della
chiusura, nonché una valutazione generale che prenda in considerazione la possibilità che lo studente sia in grado comunque di affrontare in modo positivo l’anno successivo.
Per gli studenti che devono affrontare gli esami di maturità si potrebbe ipotizzare di tenere solo l’esame orale, conferendogli un peso maggiore.
L’MPS sottolinea ancora una volta che quelle appena esposte sono solo delle suggestioni che, tuttavia, mostrano la possibilità di trovare soluzioni concrete ed eque senza entrare nella logica (in questi ultimi tempi troppo spesso ripetuta) di “portare a termini i programmi”, “effettuare gli ultimi lavori scritti”, etc.
L’MPS invita i docenti, su cui grava anche il rischio maggiore della riapertura delle scuole, a far sentire la propria voce e ad esprimersi contro una prospettiva di riapertura gravida di pesanti conseguenze.
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Edilizia e industria: le decisioni del Consiglio di Stato spianano la strada alla ripresa totale della possibilità di lavorare. L’MPS vi si oppone
La nuova decisione del Consiglio di Stato sancisce, di fatto, l’allineamento del Ticino alla realtà nazionale, sicuramente per quanto riguardo le attività del settore secondario, in particolare nell’edilizia e nell’industria.
Infatti, se si va oltre i giochi di fumose formulazioni verbali, si noterà che nella sostanza, con questa decisione Vitta e soci, con il sostegno delle organizzazioni padronali e sindacali, hanno riaperto questi due importanti scomparti produttivi.
Per l’edilizia il cambiamento è profondo e totale: da un regime di totale chiusura – erano state finora concesse solo 3 o 4 deroghe su un totale di circa 650 cantieri – si passerà a un regime di apertura totale. Il nuovo decreto stabilisce infatti che tutti i cantieri che occupano fino a un massimo di 10 persone possono aprire normalmente, certo rispettando le ormai proverbiali misure di igiene e di distanziamento sociale.
Chi conosce un minimo questo settore sa che il 70-80% dei cantieri ticinesi impiegano una forza-lavoro inferiore a 10 persone. Per i cantieri che occupano più di 10 persone è stato introdotto il regime delle notifiche indirizzate allo Stato Maggiore di Condotta Cantonale (SMCC). In concreto, per questi cantieri la deroga può essere concessa dal momento in cui “esista un’urgenza o un preminente interesse pubblico”.
Ora, dopo un mese di chiusura totale dei cantieri, non è difficile per le imprese motivare l’urgenza, costituita, ad esempio, dalla necessità di rispettare termini di consegna, inderogabili, il blocco della catena produttiva di un immobile, etc. Inoltre, molti dei “grandi cantieri” sono pubblici e quindi è facile vantare “un preminente interesse pubblico”. Pensiamo al cantiere USI/SUPSI di Viganello che
dovrà essere pronto per il nuovo anno accademico 2020. O, ancora, al cantiere della “Nuova Valascia”, la cui realizzazione in tempi stretti è fondamentale per permettere all’HCAP di poter ottenere la nuova licenza. Senza pensare a tutti i cantieri stradali e autostradali che devono assicurare le migliori condizioni di viabilità, per permettere all’economia di funzionare al meglio…
Soprattutto, però, la nostra sicurezza che i grandi cantieri non avranno nessun problema deriva dell’esperienza del regime di deroghe al quale è stata sottoposta parte dell’industria durante questa crisi del Covid-19. L’SMCC, come un tribunale supremo, non ha rifiutato una sola domanda di deroga, spesso con motivi assolutamente banali e discutibili.
Questo approccio totalmente favorevole e acritico nei confronti degli interessi delle imprese sarà totalmente operativo anche nell’edilizia. Naturalmente sarà da valutare come il totale asservimento del Governo ticinese agli interessi delle imprese, con la colpevole benedizione questa volta delle organizzazioni sindacali (al di là delle dichiarazioni dei sindacalista, a nessuno è sfuggito il fatto che Vitta ha annunciato che queste misure sono state deciso con l’accordo dei partner sociali), potrà “sposarsi” con i vincoli imposti dalle esigenze produttive sui cantieri e da quelli imposti dalle norme sanitarie e sociali.
Infatti, le imprese edili sono confrontate in primo luogo con serio problema di approvvigionamento in materiali e manufatti edili, in stragrande maggioranza provenienti dalla vicina Italia. Per diversi cantieri, l’apertura accelerata decisa dal buon Vitta non servirà a nulla perché non potranno procedere proprio a causa di questa penuria. Secondariamente, il 70% almeno della forza-lavoro edile proviene dall’Italia. Per il momento non c’è stata una riapertura integrale e corrispondente di tutti i valichi doganali, ciò che produrrà consistenti ritardi nell’arrivo dei muratori sui cantieri, creando quindi perdite di tempo a livello della produzione in cantiere. Infine, il rispetto delle norme igieniche accresciute e di distanza sociale – qualora delle imprese intendessero rispettarle integralmente – renderà estremamente difficile l’organizzazione del lavoro in cantiere, anche qui riducendo la produttività del lavoro. Siamo curiosi, e Vitta potrebbe spiegarcelo: come è possibile montare dei casseri rispettando la distanza di sicurezza sociale? Bagnovini, direttore della SSIC, saprà invece dimostrarci con un esempio sul campo come sia possibile che dei pavimentatori possano mettere dei cordoli stradali stando ad almeno due metri di distanza…
Per l’industria vale lo stesso discorso. Anche qui di fatto il nuovo decreto governativo ha introdotto l’apertura totale. Infatti, le industrie che vogliono lavorare con oltre il 50% del personale attivo a regime ordinario devono, se superano i 10 dipendenti impiegati contemporaneamente, chiedere un’autorizzazione all’SMCC per attività non procrastinabili o di interesse pubblico. Quindi fino al 50% del personale attivo impiegato non ci sarà neppure più bisogno di richiedere una deroga e lo potrà fare qualsiasi fabbrica, indipendentemente dal settore di produzione. Oltre questo limite, le industrie dovranno semplicemente chiedere una deroga all’SMCC che nelle precedenti settimane si è contraddistinto per la totale accondiscendenza dimostrata nei confronti di AITI e associati, raggiungendo lo splendido risultato del 100% di deroghe accordate… Conclusione: anche l’industria potrà riaprire senza limitazioni!
Sfidiamo dunque chiunque a dimostrare una presunta diversità fra la situazione a livello nazionale e quella cantonale, fra la posizione del Consiglio federale e quella del Governo ticinese. Noi vediamo solo un unico filo conduttore: la presa a carico prioritaria degli interessi delle imprese.
Ed è per questa ragione che riteniamo inaccettabile le decisioni prese dal Consiglio di Stato relative al prossimo periodo.

Comunicato MPS- Ticino

sabato 11 aprile 2020

La pelle la rischia solo chi lavora

Siamo a livello di 600 morti al giorno, ma FCA e sindacalisti confederali hanno sentito il bisogno di accordarsi su come dovremo lavorare sulle linee in pieno coronavirus. La solita mascherina e un po’ di disinfettante. Il sindacato si è scavato la fossa fra gli operai.


Nella giornata di giovedì 9 aprile ci sono stati in questo paese 4.204 nuovi casi e 610 vittime da coronavirus. Quelli dichiarati. In verità i contagiati sono molti di più e moltissimi non sanno ancora di averlo in corpo. Le vittime da Covid-19 sono anch’esse molte di più e non vengono contate tutte. E’ un virus che non scherza, sono già decine di migliaia in questo paese i morti. Dove i padroni hanno forzato per lasciare aperte le fabbriche i morti sono tantissimi. Quando gli operai si muovono, tante altre persone si muovono intorno ad essi, il contagio aumenta e i morti pure. Questo dovrebbe far riflettere e dovrebbe condurre chi governa questo sistema a porre in essere decisioni per tutelare l’intera collettività, invece nonostante l’aumento complessivo dei contagiati e dei morti, tantissimi sono gli operai che si muovono per raggiungere le attività produttive non essenziali che sono rimaste aperte. A questi si uniscono tutti gli operai che lavorano in luoghi dove si producono beni essenziali, che molte volte devono fare i conti con operai che contraggono il virus e con dispositivi che non servono a nulla. Mentre la situazione è questa, il sindacato confederale il 9 Aprile 2020 ha firmato con il padrone Fca un accordo per un’eventuale apertura delle fabbriche, considerando che il 13 di questo mese sarebbe dovuto scadere il blocco di alcune attività non essenziali nel quale rientra anche la stessa Fca. Il governo Conte ha poi prorogato le misure fino al 4 maggio, ma con l’accordo Fca e capi sindacali hanno già stabilito come bisognerà riprendere il lavoro pur sapendo che il pericolo di infettarsi sarà ben presente. Per ovviare al problema hanno tirato fuori dal cappello un eminente scienziato Roberto Buroni che garantisce, non si sa che cosa, visto che nessuno è in grado oggi di sapere qualcosa di definitivo sul contagio.
Il sindacato che dovrebbe tutelare gli interessi degli operai, invece di chiedere la proroga del fermo delle fabbriche che producono beni non essenziali, invece di opporsi al fatto che con una semplice autocertificazione i padroni di fatto stanno tenendo aperte moltissime fabbriche che producono beni non essenziali, si è incontrato con il padrone e ha stabilito che noi operai, una volta che lo decide il governo, possiamo tornare in fabbrica. Di fronte a un esponenziale aumento complessivo del numero di morti, Fim-Fiom e Uilm invece di chiedere che gli operai devono restare a casa, si sono affrettati a dichiarare che gli operai possono uscire dalle proprie abitazioni, convivere con il virus e andare a produrre per far felice il padrone.
A noi operai sarà misurata la temperatura, ci daranno qualche mascherina, degli stracci per pulirci la postazione in aggiunta al lavoro già previsto, del gel igienizzante che potremo prendere nei pochissimi minuti di pausa e ci faranno firmare alcuni fogli sul diario prevenzionale, come è stato fatto in passato per altre questioni. Ovviamente, poiché conviene al padrone, gli operai che hanno problemi di salute se faranno arrivare il certificato potranno rimanere a casa. Questi parassiti hanno dimenticato che esistono gli asintomatici, che i tamponi, nella porcheria d’accordo, non sono previsti, che gli operai possono essere contagiati durante il tragitto poiché fanno anche centinaia di chilometri e utilizzano gli autobus, che le mascherine chirurgiche non sono assolutamente sufficienti (sono oltre 100 i medici e oltre 30 gli infermieri morti, nonostante avessero le mascherine chirurgiche).
La piccola borghesia nelle fila del sindacato ha dimostrato ancora una volta la convergenza di interessi con il padrone, peccato che gli operai ancora credono che questi personaggi possano rappresentare i loro interessi e non abbiano ancora aperto gli occhi sulla funzione che svolgono nel sottomettere gli operai agli interessi dei padroni, al punto che oggi, in piena pandemia, sono pronti a sacrificare la nostra stessa pelle sull’altare dei profitti.
Crocco, operaio di Melfi
Fonte: operaicontro

domenica 5 aprile 2020

Covid-19 Svizzera/Ticino

Non siamo tutti sulla stessa barca! Anche nel dramma del COVID agli imprenditori miliardi, ai salariati lacrime e sangue! Per un reddito di pandemia!

Da anni la situazione economica e sociale nel Canton Ticino è grave e preoccupante. Vi sono dei tassi di disoccupazione e sottoccupazione tra i più elevati della Svizzera. Nel 2019 la disoccupazione era al 6.8%, a fronte del 4.4% a livello svizzero. La sottoccupazione al 9.9% (CH 7.3%), il tasso di povertà del 17% ed un rischio povertà addirittura del 30%.
La crisi che seguirà la pandemia rischia di accentuare ancora di più questa situazione e di provocare una catastrofe sociale.
Non dovremo però attendere la fine della pandemia per vedere i primi sintomi di questa situazione.  
Secondo gli ultimi dati statistici a disposizione lo stipendio mensile mediano lordo, calcolato su 13 mensilità, in Ticino è di fr. 4’852. Dedotti gli oneri sociali arriviamo ad una somma di circa fr. 4000.— .  Già in tempi “normali” si tratta di un magro stipendio che non basta a coprire le spese di una famiglia. Da qui la necessità in una famiglia con due adulti del doppio lavoro.
In tempi di pandemia questa somma verrà ulteriormente ridotto del 20%, circa 1’000 franchi, riducendo così il reddito mensile disponibile a 3'000 franchi.
Un reddito che non permetterà di coprire le normali spese di ogni famiglia: affitto, cassa malati, una qualche ipoteca, assicurazioni, ecc.
Ma vi è chi sta ancora peggio. E pensiamo a tutte e tutti coloro che hanno dei rapporti di lavoro precari, temporanei, a domicilio. Così come tutte quelle famiglie monoparentali che dipendono finanziariamente dal versamento di alimenti. Migliaia di cittadine e cittadini che a seguito della pandemia stanno avendo ed avranno un grave problema di liquidità!
La situazione è drammaticamente chiara: o qui lo Stato introduce un reddito di pandemia a compensazione ed/o integrazione dello stipendio mancante o, fra qualche mese, migliaia di cittadine e cittadini di questo Cantone si vedranno sommersi da precetti esecutivi, magari inviati dalle quelle stesse imprese che negli scorsi giorni in 30 minuti hanno ricevuto 500'000 franchi dalla Confederazione.
Una volta passata la pandemia lo Stato potrà istituire un’imposta di solidarietà a carico delle aziende e recuperare quanto versato alle cittadine ed ai cittadini. Perché non dobbiamo dimenticarcelo: sarebbero loro, le aziende, a dover garantire il 100% del salario ai propri dipendenti.
Come indicato nel titolo di questa mozione in questa società non sono tutti sulla stessa barca. Nella giornata di venerdì 3 aprile 2020 il Consiglio Federale ha portato a 40 miliardi il volume delle fideiussioni alle aziende a seguito del COVID-19.
Come indicato dal ministro delle finanze Maurer una qualsiasi azienda, tempo 30 minuti dall’inoltro della richiesta di un credito di 500'000 franchi, deve poter avere sul suo conto bancario tale somma. Somma garantita interamente dalla Confederazione ed a tasso 0. Il secondo livello dei crediti fino a 20 milioni deve essere a disposizione al massimo in una giornata.
Alla luce di queste considerazioni tramite questa mozione chiediamo al Consiglio di Stato di istituire con effetto immediato un reddito di pandemia per tutte le cittadine e tutti i cittadini residenti in Ticino.
Tale reddito di pandemia deve essere concesso analogamente ai 500'000 franchi garantiti dalla Confederazione senza grandi lungaggine burocratiche (tempo indicativo 30 minuti) tramite gli uffici dei singoli comuni di residenza.
Esso deve essere versato a tutte le cittadine e tutti i cittadini residenti che possano rendere verosimile una riduzione del loro reddito mensile, a seguito di lavoro ridotto, mancato reddito, mancati versamenti d’alimenti, ecc.
Tale reddito di pandemia deve garantire un reddito fino ad un massimo di 6'000 franchi mensili.

Per il gruppo MPS-POP-Indipendenti

giovedì 2 aprile 2020

Le proposte dei padroni e la risposta operaia

Il signor Manley, amministratore delegato di FCA (ex FIAT, quella degli Agnelli) ha scritto una lettera a tutti i dipendenti, compresi gli operai, nella quale chiede che si autoriducano lo stipendio del 20% per curare la salute finanziaria del gruppo. La risposta degli operai è arrivata subito



A. D. Manley,

non ci prenda in giro, non ci chiami colleghi, non siamo colleghi, siamo solo operai che lavorano nelle fabbriche FCA e non vogliamo essere confusi con dirigenti, impiegati e capi.

Forse non sa fare i conti. Il 50% di uno stipendio di milioni sono sempre milioni di euro. Il 20% in meno di un salario di 1200 euro sono 20% in meno di pane, pasta, di bollette, affitto. Non possiamo venire incontro alla sua sfrontata richiesta, chieda pure agli azionisti, ai suoi dirigenti di rinunciare a qualche vizio, non chieda a noi operai di rinunciare a vivere.

Avete dei problemi di salute finanziaria, che è altra cosa della salute pubblica, avete problemi di accesso ai capitali ed allora vi chiediamo: dove sono finiti gli utili che avete realizzato facendoci faticare come schiavi sulle linee? Forse è tempo che mettiate mano ai depositi bancari, alla ricchezza che il gruppo dirigente ha accumulato. Se poi avete intenzione di usare il coronavirus per scaricare i vostri problemi finanziari e di mercato su di noi, come sempre avete fatto, forse questa volta non saremo più disposti ad accettare, stando zitti, licenziamenti e peggioramento delle condizioni di lavoro.

Il coronavirus oltre ad attentare la nostra salute, e non dimenticheremo mai che abbiamo dovuto fare sciopero per poter stare a casa e difenderci dal contagio, aggrava, questa sì, la nostra salute finanziaria. Con la cassa integrazione la paga si riduce ben oltre il 20% per cui siamo noi che chiediamo a Lei e a tutti i suoi collaboratori di integrare il nostro salario al 100%, ci servirà per affrontare la pandemia con maggiore fiducia di farcela. Di sopravvivere.

Questa è la risposta alla sua lettera che forse nessuno le farà mai leggere, a noi serve per dimostrare che ci sono operai che sanno cosa vogliono.
Gli operai FCA del Partito Operaio