martedì 31 dicembre 2019

Per chi lavora il 2020 sarà peggiore del 2019

http://www.operaicontro.it/2019/12/29/vita-da-schiavi/

Pensieri di fine anno

Arriva un momento in cui i figli ti si staccano dalle mani, come sull'altalena, quando li spingi per un pezzo e poi li lasci andare. Mentre salgono più in alto di te, non puoi fare altro che aspettare, e sperare che si reggano saldi alle corde. L'oscillazione te li restituisce, prima o poi, ma diversi e mai più tuoi.

Paolo Giordano,

.... e certe volte neanche te li restituisce 


lunedì 30 dicembre 2019

Pensieri per le feste

La vita potrebbe essere divisa in tre fasi: RIVOLUZIONE, RIFLESSIONE e TELEVISIONE....si comincia con il voler cambiare il mondo e si finisce col cambiare i canali.

(Luciano De Crescenzo)

Un padrone anomalo

Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande.



Adriano Olivetti

martedì 17 dicembre 2019

La lotta armata in Italia secondo Bignami

https://www.ilsussidiario.net/news/brigate-rosse-e-pentitismo-bignami-si-puo-essere-ex-terroristi-mai-ex-assassini/1961090/

Ma guarda cosa viene a raccontarci il "pastore" Bignami. Il bue che dà del cornuto al leone.
Non ci sono stati assassini e/o terroristi, ma combattenti e opportunisti.
Sui metodi di risposta dello Stato inutile infierire. La storia ha già espresso lo stretto necessario.

domenica 24 novembre 2019

Opportunisti di tutto il modo, unitevi!





Ma guarda chi c'è sotto l'ascella del Segretario Generale !
Il "pelato" che tentò di screditarlo agli occhi del popolo sovietico.


giovedì 14 novembre 2019

In questo mondo perfetto ...

In questo mondo perfetto ...
...non presentatevi al colloquio per un lavoro trasandati né tirati di tutto punto, richiamare troppa attenzione non va bene, è l’anonimato l’opzione raccomandata, coniugabile col non far capire mai ciò che si pensa. L’aspetto deve essere commisurato alla personalità, più è convenzionale, meglio è.
Eventuali alzate d’ingegno riservatele ad assunzione ottenuta, ma non allargatevi più del dovuto perché le rivalità fra colleghi sono sempre in agguato e, come ultimi arrivati, sarete voi ad avere la peggio.
Sul salario non dite mai “ che mi permetta di vivere dignitosamente” perché fuori dalla porta (pure da quella con su scritto “prima i nostri”) saranno numerosi quelli che si accontenteranno di meno, molto meno, o di più ma ricattabili.
Non enfatizzate il vostro iter scolastico anche se di primordine, chi vi paga vuole esperienza acquisita prima di aver cominciato a lavorare, e da ciò nessuna “magna/summa cum laude” può tutelarvi.
Ricordatevi anche che eventuali proposte di stage temporanei equivalgono a lavoro volontario pressoché gratuito.
Le referenze non cambiano la sostanza, anzi potrebbero indurre il “cacciatore di teste” a ribattere “ da noi queste cose non hanno rilevanza”. Opinabile ma comprensibile, infatti a pesare sono i cognomi, le famiglie con relativi partiti.
Se nonostante queste raccomandazioni uscirete dal colloquio con la promessa di assunzione, non gasatevi perché la logica di mercato è volubile: Ti prendo oggi per buttarti domani o dopo!
Quindi  auguri o come la banalità del momento insegna “in bocca al lupo”, ma sarebbe una presa in giro perché qui il lupo non crepa, mangia e anche di brutto.


                                       Dopo averli macellati vengono anche tritati

mercoledì 13 novembre 2019

La DDR si esauriva 30 anni fa ...


... con le donne che andavano in pensione a 60 anni e i pensionati che potevano tranquillamente viaggiare fuori dal paese.

Prima no, per evitare che alcune persone dopo aver studiato nelle ottime università dell’est, gratuite, poi andassero a impiegarsi nelle aziende dell’ovest, attratte da chissà quali privilegi e lussi.

I lavoratori dipendenti del "mondo libero" sanno benissimo di cosa sto parlando.


lunedì 21 ottobre 2019

Processo Consonni: I padroni vincono sempre

Processo Consonni: indignazione e vergogna!

Indignazione e vergogna: sono queste le parole con le quali l’MPS ha appreso la notizia della sentenza con la quale i responsabili del processo Consonni sono stati prosciolti dalle accuse di carattere penale.
Una sentenza che, al di là dell’approssimazione emersa nell’atto d’accusa (che dimostra, tra le altre cose, quanto i meccanismi di “qualifica” dei magistrati da parte del potere politico siano spesso solo un alibi sul quale fondare scelte politiche), di fatto conferma quanto gli attuali strumenti siano insufficienti per combattere in modo adeguato gli abusi ai diritti di chi lavora.
Ancora una volta, val la pena ricordarlo, è stato solo grazie al coraggio dei lavoratori coinvolti che abusi dei diritti, dumping sui salari e altre pratiche illegali sono state denunciate; lavoratori che, di fronte a sentenze come quella odierna, rischiano di sentirsi scoraggiati.
Questa vicenda, l’esito di questa sentenza, mostrano ancora una volta, quanto fondate e urgenti siano le proposte contenute nell’iniziativa contro il dumping salariale e sociale lanciata proprio in questi giorni dall’MPS e per la quale è iniziata la raccolta delle firme.
Servono con urgenza misura di controllo del mercato del lavoro che impediscano il diffondersi e il generalizzarsi di pratiche selvagge.

Movimento per il Socialismo 



giovedì 17 ottobre 2019

Stammheim (BDR),ottobre 1977

Il tentativo più alto di alternativa comunista in Germania poteva essere stroncato SOLO con un massacro mascherato da suicidio collettivo. Anche qui con la piena collaborazione della "sinistra" embedded.

https://contromaelstrom.com/2019/10/17/strage-nel-carcere-di-stammheim-42-anni-fa/


giovedì 10 ottobre 2019

Cosa conta chi lavora nella Svizzera felix

Assicurazione Helvetia: ovvero come si calpestano di diritti di chi lavora 

Negli stessi giorni in cui a Lugano si celebrava il processo Consonni, un triste esempio di abusi salariali nei confronti dei lavoratori, ecco che viene annunciata una vera e propria operazione di dumping salariale e sociale effettuata dalla compagnia di assicurazione Helvetia nei confronti di una cinquantina di propri consulenti attivi in Ticino (assicurazione alla cui testa, nel nostro cantone, figura Michele Morisoli, l’”uomo cerca” del PLRT…) La scelta proposta ai dipendenti è tra l’adesione ad una modifica verso il basso delle condizioni salariali (con l’introduzione di assurde ed illegali clausole retroattive) o la perdita del posto di lavoro: mai una illustrazione di cosa sia il dumping salariale è stata più chiara. Alla base di tutto questo vi è certo la concorrenza sempre più esasperata nel settore assicurativo: una concorrenza che tuttavia ha come motore principale la volontà di chi dirige le aziende di mantenere o aumentare il tasso di redditività del capitale investito, attraverso un aumento dei profitti che, evidentemente, va a scapito delle remunerazioni dei salariati. A conferma di questo basterà ricordare che Helvetia è una delle compagnie assicurative più remunerative: nel solo 2018 ha generato un utile di quasi mezzo miliardo (431 milioni). La sua quotazione in borsa negli ultimi anni, proprio in seguito ai profitti conseguiti incessantemente, ha subito un incremento cospicuo a tal punto da necessitare uno “splitting” del valore delle azioni (5 nuove azioni per una vecchia). Significativo, malgrado questo elemento appena ricordato, l’aumento del dividendo per il 2018, passato da 1 franco per azione a 24 franchi. Questi attacchi contro le condizioni di salario e di lavoro avvengono per due ragioni. Da un lato perché il settore terziario soffre di una mancanza cronica di una presenza sindacale in grado di assicurare un minimo di protezione e di mobilitazione dei salariati. Dall’altro la latitanza degli organismi pubblici (ispettorato del lavoro) di controllo e monitoraggio del mercato del lavoro. Gli strumenti e le forze a disposizione per un controllo serio del mercato del lavoro sono nettamente insufficienti. Ed è in questo contesto che il mercato del lavoro in Ticino da tempo oramai è diventato un mercato selvaggio, nel quale vige la legge del più forte a scapito dei diritti di chi lavora, aprendo le porte a soprusi evidenti (come testimonia la vicenda Helvetia), mettendo con le spalle al muro lavoratori che non hanno strumenti di difesa. Il caso in questione (così come altre vicende che ormai quasi quotidianamente ci segnalano il degrado delle condizioni di lavoro dei salariati e della salariate in questo cantone) necessita , oltre alla necessità di un rilancio dell’azione di difesa sui luoghi di lavoro, anche proposte per rafforzare il controllo del mercato del lavoro e delle condizioni di salario e di lavoro. Proprio perché cosciente di questa situazione, che negli ultimi anni non ha cessato di denunciare e di combattere, l’MPS lancerà la prossima settimana un’iniziativa popolare denominata “Rispetto per i diritti di chi lavora. Combattiamo il dumping salariale e sociale”. Un’iniziativa che vuole rafforzare in modo decisivo il controllo del mercato del lavoro e delle condizioni salariali offerte ai lavoratori e alle lavoratrici: un passo fondamentale nella lotta contro il dumping salariale e sociale.

Fonte: MPS, Cantone Ticino

mercoledì 9 ottobre 2019

Lezioni venezuelane

«Vi abbiamo messo in guardia contro la retorica umanitaria degli stati capitalisti che si dichiarano pronti a venire in soccorso della Russia sovietica affamata». Così si avviava il primo numero della “Correspondance Internationale” nel lontano 1921, quando gli immediati tentativi messi in atto dalle potenze mondiali, fino a poco prima impegnate in una lotta per l’annientamento reciproco, si concentravano per sopprimere sul nascere il più grandioso tentativo rivoluzionario che la storia abbia conosciuto. Il Venezuela non è di certo la nascente Unione Sovietica – sebbene sia una delle poche esperienze rivoluzionarie che abbia tenuto alta la bandiera della sinistra di classe riuscendo a dare ancora un senso a questo lèmma – ma la fase imperialista, mutatis mutandis, è sempre la stessa.
E le ingerenze delle potenze imperialiste in paesi in cui sorge un’alternativa anticapitalista, contrabbandate a mezzo stampa per interventi umanitari (proprio come quelle a cui abbiamo assistito nel caso venezuelano, con estremi quali i tentativi di sfondamento da parte di convogli provenienti dal confine colombiano) (leggi), sono uno strumento vecchio e stravecchio, come testimonia in modo chiaro il titolo dei rivoluzionari del ’17. Una storia di lungo corso quella di questo genere di interventi “umanitari”, che se venisse ripercorsa mettendola nero su bianco, ci si potrebbe per assurdo riempire le pagine di questo blog. Ovviamente non è questo l’esercizio che a noi interessa sebbene anche la mera cronaca, talvolta, sembri esercitare effetti miracolosi sulla generale assenza di memoria storica che caratterizza il nostro secolo. Quello che ci preme ricordare adesso, invece, sono alcune delle ragioni che hanno precipitato una delle più originali esperienze del socialismo moderno in una fase di stallo e di crisi, di cui fanno parte anche, ma non solo, gli appetiti imperialistici.
Prima di tutto, però, sgomberiamo il campo da alcune ambiguità. Il processo rivoluzionario in Venezuela è un movimento storico carico di limiti e gravido di contraddizioni – come ogni processo rivoluzionario degno di questo nome, d’altronde – ma è un’esperienza, forse l’unica se storicizziamo gli anni che seguono la caduta dell’URSS, che in una certa forma ha contribuito a garantire respiro e continuità a una sinistra di classe che, presa globalmente, versava in una situazione di crisi profonda.
Il discorso sembra acquistare ancora più peso se guardiamo alla sinistra europea di quegli anni, divisa tra chi aveva cessato di cercare criticamente un’alternativa e chi, invece, passava con inedita agilità da inamovibile sostenitore del gradualismo riformista a quello della controrivoluzione liberista.
In questo senso – lo abbiamo scritto più volte, ma questo è un concetto che non fa mai male ricordare quando si tenta l’analisi critica di un processo rivoluzionario – la sinistra di classe in Europa ha solo da imparare da chi ha dato corpo alla rivoluzione in Venezuela e ben poco, se non nulla, da insegnare. Inoltre, Il fatto che fino a poco tempo fa lo scontro di classe in atto in Venezuela fosse costantemente presente su tutte le testate nazionali e internazionali, mentre oggi sembra essere già stato dimenticato, è certamente il segno inequivocabile di un momento di relativa calma. Una boccata di ossigeno, certo, per le forze che sostengono il processo rivoluzionario venezuelano rispetto a quando i toni da guerra civile erano il lessico obbligato ma tuttavia, crediamo che debba essere preso come il passaggio di un’onda, seppure di grosse dimensioni, che prepara, come in ogni tempesta perfetta, l’avvento del flutto più grosso e ben più pericoloso.
Qualsiasi forma di solidarietà episodica, quindi, o di tentativo di analisi che interviene solo e soltanto quando una fase di crisi s’inasprisce e il “momento venezuelano” viene schiaffato su tutti gli organi di stampa con aperta volontà da guerra mediatica, non può che risultare di scarsa efficacia quando non di pericolosa convergenza. E’ francamente insopportabile leggere di chi si ricorda che il Venezuela esiste solamente quando le scintille dello scontro di classe in atto bruciano anche le pagine dei nostri giornali, e chi si dimena – per fare solo un paio di esempi tra i tanti possibili – perché si sta consumando un disastro ecologico nella fascia dell’Orinoco (tradotto: che esiste una contraddizione tra successo del processo rivoluzionario in atto e indipendenza energetica), o grida al caudillismo quando una destra golpista viene contrastata sul piano elettorale con ogni mezzo a disposizione (tradotto: che esiste una contraddizione tra avanzamento del processo rivoluzionario in Venezuela e democrazia borghese).  E’ la solidarietà di classe e internazionalista la migliore critica quando un processo giudicato come autenticamente rivoluzionario è sotto attacco, e non la solidarietà formale ed episodica, ne tantomeno la critica sincronizzata all’offensiva del nemico.
Questo tipo di solidarietà, lo sappiamo bene, è merce rara oltre che materia prima davvero difficile da garantire in una fase di complessivo arretramento. Consci di queste difficoltà e altrettanto sicuri che un’analisi critica non può che partire da questi presupposti, guardiamo allo svolgersi degli eventi nel continente latino americano con la stessa cocciuta smania di afferrare il conflitto di classe in atto, ancora oggi l’alfa e l’omega di un’analisi concreta, di un’ analisi effettivamente attuale.
Ma veniamo a quanto accade nell’unico paese che non si è piegato al cambio di marcia che sembra non trovare ostacoli nel continente. Prima di tutto bisogna constatare che ad essersi aperta la “crisi” è ormai un lasso di tempo piuttosto consistente. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando si sono celebrate le elezioni presidenziali del 2013 tra Nicolas Maduro e il temporaneo leader dell’eterogeneo fronte reazionario Capriles, volto politico di un partito ormai ridotto al lumicino. Un appuntamento elettorale, quello, vinto per un soffio dal fronte bolivariano e che ha certificato, oltre ad una spaccatura apertasi nel paese, una sensibile perdita di consensi dell’alternativa bolivariana ancora fiaccata dalla prematura scomparsa del comandante Chavèz. Il fatto che questa “crisi” sia in atto da almeno sei anni non è un dato secondario e superfluo, almeno se lo si guarda alla luce dei continui annunci dell’imminente guerra civile che dovrebbe investire il paese e delle letture catastrofiste che, frammiste alle analisi che danno per putrescente lo stato venezuelano, imperversano da sempre nel dibattito.
Il movimento bolivariano e la forma che ha assunto in questa fase la rivoluzione in Venezuela, forma di cui fanno parte anche, ma non solo, le istituzioni della Repubblica Bolivariana, resiste sotto i colpi inflessibili ed incrociati di chi vuole invertire la rotta nel continente –  inversione che in altri, molti paesi sud-americani è già avvenuta – e ad ogni annuncio di imminente crollo della rivoluzione questo risponde con una pronta e inappellabile smentita, quella dei fatti. Naturalmente questo non può farci perdere di vista che le difficoltà e gli ostacoli reali cui si trova a dover far fronte il chavismo sono evidenti ed inediti, ma tra il dire che in un dato paese ci si trova di fronte ad un complesso istituzionale sull’orlo del crollo – visione sempre scientemente calibrata sul piano politico-istituzionale e mai su quello sociale – e il constatare, invece, che nello stesso paese un soggetto politico non unitario come il movimento bolivariano si trova sotto attacco e in competizione con un fronte reazionario, ma risponde colpo su colpo e si ridefinisce nella lotta, c’è una bella differenza.
Sei lunghi anni, dunque, che hanno visto accendersi una scia di lotta politica con le elezioni presidenziali del 2013 e proseguire fino a quella che noi conosciamo come la crisi presidenziale del 2019, passando per una serie di turbolenti e complicati eventi tra cui tentati golpe (militari e non); attentati alla figura del presidente della Repubblica; continue, incessanti e pericolose manovre militari straniere ai confini dello Stato venezuelano; ostracismo politico diplomatico quasi generalizzato nel continente; la vittoria elettorale della destra golpista che ha conquistato l’Assemblea nazionale nel 2015; una crescente guerra economica messa in atto dalla più grande potenza mondiale e che oggi ha raggiunto il grado di problema principale oltre che una progressiva caduta degli alleati regionali sotto i colpi dell’offensiva reazionaria continentale. Insomma, di tutto e di più (e sicuramente la lista non è completa): ma quale la lezione, seppur provvisoria, che si può trarre dalle vicende venezuelane?
Gli aspetti che appaiono come cruciali, tra i molti possibili, e di cui la lotta in atto a Caracas può raccontarci qualcosa sembrano essere almeno due. Cominciamo dal primo e più evidente. La dipendenza economica che il Venezuela continua a sopportare nelle sue molteplici forme è un tratto problematico dell’esperienza bolivariana (ma prima ancora strutturale del paese) e si è rivelata essere la più pericolosa delle falle che il sistema venezuelano accoglie, prontamente sfruttata dalle forze reazionarie con in testa gli Stati Uniti.  La difficoltà, se non l’impossibilità nel medio periodo di conquistare un’indipendenza economica – sebbene gli sforzi per arrivare ad un simile obiettivo siano stati ripetuti, o almeno di affrancarsi parzialmente – derivano dalla dimensione quantitativa e da quella qualitativa che questa dipendenza sembra avere.
La Repubblica bolivariana del Venezuela, infatti, come leggiamo in un saggio veramente ricco di dati dell’economista venezuelana Pasqualina Curcio (1), importa complessivamente il 24% del totale dei beni dagli Sati Uniti d’America, i quali sono seguiti dalla Repubblica popolare Cinese con una quota consistente del 15% e dal Brasile, la Colombia (la principale testa di ponte degli Yankee per qualsiasi guerra sporca nel continente), l’Argentina e il Messico. Tra questi, i medicinali necessari al funzionamento del sistema sanitario in Venezuela per il 37% provengono dagli Sati Uniti d’America (gli stessi medicinali che, venendo improvvisamente a mancare, hanno generato l’inedita crisi sanitaria di cui il mondo parla) seguiti da Messico, Germania e Colombia (rispettivamente per il 15,13 e 12%). Proseguendo nella disamina delle importazioni si nota che, dopo i medicinali, nonostante il Venezuela possieda una quasi totale indipendenza agroalimentare (l’88% della produzione è autoctona e una larga parte è fornita dai piccoli produttori), quel restante 12% viene riempito ancora dagli USA e dalla Colombia. Last but not least, soprattutto se si parla d’indipendenza economica nella regione, il Venezuela è costretto, almeno per ora, a importare la vertiginosa cifra del 50% di macchinari, equipaggiamento per la produzione e ricambi – in tre parole i mezzi di produzione – indovinate un po’ da chi? ancora gli Stati Uniti d’America.
Se si scorre rapidamente il quadro delle cifre fino a adesso elencate non sembra possibile interpretare diversamente da una strutturale e immobilizzante dipendenza economica dal capitale americano la morfologia che l’economia venezuelana ha assunto, certamente ereditata da decenni di dipendenza neo-coloniale ma in parte mantenuta viva da altri fattori. Da una parte il dato empirico ci conferma la fonte, l’origine inequivocabile della scarsità di beni di prima necessità, della mancanza di medicinali, della difficoltà d’incremento produttivo e di tutte quelle circostanze che concorrono a definire un quadro di crisi economica e sociale. Dall’altra, gli stessi dati certificano il limite invalicabile che un determinato sviluppo delle forze produttive, inchiodato tra le maglie dell’influenza del capitale statunitense nel continente e l’ostruzionismo di un settore privato che persegue una lucida politica di scarsità programmata generando squilibri nel mercato interno esercita sul paese.
A questo va aggiunta la rigidità di un sistema politico che basa una buona parte dei suoi successi sull’estrazione del petrolio.
Anche su la ben nota dipendenza dell’economia venezuelana dal petrolio e dalla sua gestione, tuttavia, ci sarebbe da dire molto, e si dovrebbe quantomeno tentare di superare un ragionamento bloccato tra la critica fanatica all’impiego delle risorse petrolifere e il sostegno di politiche economiche che seguono specularmente l’agenda politica dell’OPAC.
In realtà, infatti, l’affrancamento dalla dipendenza totale delle risorse petrolifere viene in una certa misura perseguito dalle autorità venezuelane, e anche qui nel suo “La mano visibile del mercato” la Curcio ci mostra come, nonostante il prezzo del greggio al barile abbia seguito un crollo vertiginoso dal 2012 al 2015 (all’incirca dai 103,46 dollari ai 44,65 al barile), una flessione che avrebbe dovuto causare uno shock dell’intero sistema economico, il prodotto interno lordo per quanto riguarda la fetta del settore privato diminuì in maniera sensibile ma non catastrofica, mentre i dati del settore controllato dallo stato segnarono un piccolo aumento del 4%. Un dato parziale, certamente, ma che fornisce qualche elemento in più per ragionare sulla vulgata che ci racconta di un sistema economico paralizzato dall’estrattivismo e dalla rendita.
Il nocciolo della questione si trova nel ruolo che il settore petrolifero nelle mani dello stato bolivariano ricopre, ovvero quello di una sorta di formidabile welfare pronto all’utilizzo, e non nella presupposta ingombrante presenza di questo settore nell’economia. La crisi e la scarsità venezuelana, dunque, derivano prima di tutto dalla presenza di monopoli nel settore privato tanto quanto dalla dipendenza, in alcuni settori pressoché paralizzante, dalle importazioni che sono poi garantite dai nemici giurati della rivoluzione, e non dall’uso spregiudicato – e in senso progressista per altro – delle risorse petrolifere. Certamente la questione è ben più complessa e non si può non tener conto di come questo strumento sia stato impiegato nel quadro della costruzione dello stato bolivariano: se non come panacea per ogni male capitalistico, almeno come ottima carta da spendere quando il gioco per il governo cominciava a farsi duro.
Un meccanismo che non è riuscito a mantenere un’efficacia attraverso la crisi – anche petroliferia – che ha investito il paese.
Alla luce di queste brevi considerazioni sull’aspetto economico, tentiamo invece di abbozzare qualche ragionamento sul piano politico. La serie di eventi che ha scosso l’esperienza bolivariana, anche se giustamente ricondotti a un intervento pianificato della reazione nel continente, non possono non evidenziare una crisi di consensi o quanto meno l’incrinarsi del piano fino ad ora sostenuto dal progetto del socialismo del XXI secolo. Non convince fino in fondo, infatti, l’idea che riconduce la sconfitta elettorale del fronte bolivariano, certamente un episodio nella lunga serie di vittorie elettorali che il chavismo può vantare, come il semplice frutto delle macchinazioni di potenze straniere (che pure ci sono in abbondanza) o della manipolazione mediatica (che pure lavora incessantemente per colpire il governo).
A questi due aspetti, che certamente esistono e giocano un ruolo non secondario, va aggiunto, cercando di coglierlo nel quadro dei rapporti di forza politici, il controllo dei settori strategici dell’economia di cui il ragionamento appena fatto tenta brevemente di parlare, anche se da una singola angolazione.  La sconfitta elettorale del chavismo, infatti, è stata effettiva e oltre ad evidenziare un inasprimento della lotta con l’imperialismo e con i blocchi capitalistici venezuelani, ha messo sotto i riflettori la difficoltà che l’alternativa bolivariana ha incontrato nella ridefinizione e nel capovolgimento delle geometrie politiche che attraversano il paese.
Il fatto che nel paese permanga la possibilità reale che un’offensiva reazionaria trovi un sostegno robusto nei blocchi reazionari che si annidano nel paese esprimendo campagne mediatiche e politiche per disarcionare il governo bolivariano, oltre ad essere garantita dalle risorse pressoché illimitate dell’imperialismo yankee è il prodotto del permanere di condizioni sociali che la tutelano.
All’ipocrita mitizzazione del momento elettorale borghese, esercizio da cui sono veramente rimasti in pochi a sottrarsi, e che non può che portare un punto di vista di classe in un vicolo cieco, è sacrosanto contrapporre il tentativo di costruire, da parte di un governo rivoluzionario delle forme alternative e inedite di consenso e partecipazione popolare, degli strumenti nuovi con cui suffragare il progetto che la rivoluzione mette in atto giorno per giorno e che certamente sfugge alle società di monitoraggio dei processi elettorali o ai canoni di valutazione delle istituzioni internazionali.
Tuttavia, anche qui, occorre spendere due parole in più per cercare di spingere il ragionamento oltre. Come suggeriva Marx solamente qualche anno più tardi del primo esperimento di governo socialista «il diritto, come le forme di espressione politica sancite dalla legge, non può mai essere più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della società». Se, infatti, un governo come può essere quello bolivariano combatte con ogni mezzo a sua disposizione per mantenere le posizioni raggiunte dal processo rivoluzionario e difende con le unghie e con i denti le conquiste raggiunte dalle masse sovvertendo anche le forme giuridiche borghesi e stravolgendo i canoni democratici liberali, lo fa in virtù della nuova forma cui la società venezuelana è giunta, prodotto della prassi rivoluzionaria accumulatasi in più di un decennio rivoluzionario. E nel considerare questo una sinistra di classe degna di questo nome, ovvero una sinistra che ha ben presente che conquista del potere significa lotta tra le classi nella sua fase più acuta, dovrebbe ribadire, con forza, che «il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere diseguale» (2).
Una dinamica che segue pedissequamente la divisione in classi, operando però un ribaltamento. Dal momento che in una società capitalistica la divisione tra le classi impone delle disuguaglianze adeguate alla divisione del lavoro, nell’attimo in cui i rapporti di forza si capovolgono, ovvero che si verifica il sovvertimento del potere, lo Stato retto dalle forze rivoluzionarie si dovrà dotare di strumenti adeguati per difendere la propria posizione nel momento in cui mette in atto quel processo di trasformazione della società e di liberazione delle forze produttive che porterà ad un progressivo indebolimento della classe avversa, mano mano che la divisione del lavoro e la forma capitalistica di funzionamento della società perderà la sua spinta propulsiva. Il lato scottante della questione, però, non sta tanto nel disfarsi del simulacro democratico liberale con annessi rituali elettoralistici, ovvero del diritto borghese, l’idolo sotto cui la sinistra nostrana continua a spaccarsi la testa a forza di inchini, bensì nel tentativo di intervenire in maniera incisiva approfondendo il processo rivoluzionario e ribaltando i rapporti di forza sul piano dei rapporti di produzione. E’ su quest’ultimo che si erge il complesso politico e istituzionale e le forme di espressione politica come il diritto, ed è sul mutamento di questo che si può basare uno stravolgimento delle forme di espressione politica e consenso.
Questo breve ragionamento per comprendere in maniera più chiara come, se anche il governo bolivariano porterà a compimento la battaglia vitale che ha ingaggiato con il fronte reazionario antigovernativo fregandosene dai canoni borghesi tanto cari a certa sinistra, dovrà farlo incidendo anche sui rapporti di produzione, in pratica rimediando a quelle caratteristiche di cui l’economia venezuelana in transizione soffre e che perpetuano la sua vulnerabilità sia nei confronti dell’Imperialismo americano che delle insidie delle forze reazionarie venezuelane. Tanto facile nella teoria quanto difficile nella prassi, una prassi che certamente non s’invererà seguendo forme scolastiche ma trovando vie inedite e mai battute. Ma la rivoluzione bolivariana, dopo tutto, è stata fino ad oggi vincente proprio perché fuori dagli schemi, almeno dai nostri.

(1) Pasqualina Curcio, La mano visibile del mercato, Edizioni Efesto, Roma.
(2) K.Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma, pg.17.

martedì 24 settembre 2019

martedì 17 settembre 2019

Pro memoria


Se arriverò a cent’anni…


Non voglio nessun teatrino pubblico con torta, palloncini, foto e politico di turno. Mi piace dirlo adesso, ancora lontano da qualsiasi forma di demenza senile, per sollevare i famigliari da inutili strette di mano, sorrisi di rito e battutine stereotipate. Lugano è la mia città dal 1962, quando vi giunsi da un paese della valle dell’Arno poco noto alle carte geografiche del tempo, ma,proprio per questo, luogo vero, pulsante di rivalità e antagonismi non ancora addormentati dal miracolo economico. A Lugano sono cresciuto, ho lavorato e messo su famiglia, tenendo fermi i concetti di protesta sociale ereditati da pezzi di casato rimasti sul luogo di nascita. Non è stato ovviamente un percorso facile, lontano da quello dei sessantottini di buona famiglia che, passati i pruriti rivendicativi, hanno fatto valere i cognomi e le amicizie pesanti per evitare problemi. Termini come pace e concordanza stagnano nella “zona retrocessione” del mio vocabolario, dove svetta, in solitaria,la parola “conflitto”, quello che ha mosso la storia dell’uomo anche se non è ancora riuscito a raddrizzare il legno storto di cui è fatto. A Lugano voglio bene, meno a larghe fette  dei suoi abitanti “embedded” nell’edonismo competitivo, per nulla a chi la rappresenta con relative truppe al seguito. Non è una questione di colori, oggi il rosso( pallido) vale come l’azzurro, il verde o il grigio, ma di etica, lealtà, trasparenza da esercitare (sul serio!)in tutti gli ambiti del quotidiano. Un esempio per tutti: Non caricare sulle spalle dei figli le divergenze che si sono avute con i padri limitandone le potenzialità. Nel conflitto si punta chi sta al fronte, non i parenti che restano a casa. Ho cercato spesso di farmi beffe del potere costituito e per questo trattato come innominabile. Grande onore! Mi ricorda il “Nessuno”,uomo di multiforme ingegno che infiniti danni addusse ai Troiani , che sfidò l’ira degli dei pur di ritornare a casa. Sapere che voi fate quello che fate(e continuerete a farlo) mi aiuta parecchio ad esercitare quel dovere verso l’avversario, a non dargli pace finché avrò fiato.
Quindi, se verrà quel giorno, alla larga ! Senza rancore.


mercoledì 4 settembre 2019

Cambio della guardia alle FFS svizzere


I manager dei padroni si danno il cambio (con benservito milionario), ma i danni restano. Olé !


Meyer se ne va, i problemi restano

Meyer ci lascia: il CEO delle FFS lascerà il prossimo anno la guida dell’azienda per sedere, ha detto lui stesso, in nuovi consigli di amministrazione ed altro ancora.
La comunicazione di questa decisione al consiglio di amministrazione, ci viene ancora detto, risale a qualche mese fa, anche se solo oggi è stata resa pubblica.
E, certo, momento più adeguato non poteva essere trovato. Poiché le FFS sotto la guida di Meyer hanno subito uno dei maggiori declini che un’azienda pubblica (in particolare in questo paese) abbia mai manifestato in uno spazio di tempo tutto sommato limitato (13 anni).
A rendere visibile questo declino la convocazione, qualche settimana fa, dello stesso Meyer da parte di ben due commissioni parlamentari che, verosimilmente, facendosi interpreti della montagna di lamentele che giungono sui servizi delle FFS, gli hanno chiesto conto di ritardi, incidenti, soppressione di treni, disguidi e disservizi ormai quotidiani che hanno intaccato profondamente uno dei miti attorno ai quali si è costruita l’identità elvetica del dopoguerra.
Certo non è stato Meyer ad avviare quel processo di privatizzazione, cominciato con la trasformazione in SA e con lo sviluppo di una politica dei servizi offerti e del personale orientati verso una logica di mercato. Una logica nella quale il benchmark, cioè il confronto con il tasso di redditività di capitali investiti nello stesso settore, ha costantemente avuto la meglio sulla logica del servizio pubblico.
Ma, sicuramente, è stato proprio Meyer l’interprete più coerente e spietato di questo adattamento alla pure logica del mercato.
E come sempre quando ad affermarsi nel capitalismo moderno sono le logiche di mercato a lasciarci le penne sono i settori, i soggetti, le regioni più deboli. Così, il Ticino ha sofferto e soffre più di altre regioni in termini di posti di lavoro persi (basti pensare all’Officina), di disservizi (non si contano più i ritardi, le soppressioni di treni, la cronica insufficienza di materiale rotabile messo a disposizione degli utenti, in particolare nelle ore di punta). E quando Meyer si è presentato in Ticino, spesso facendo la voce grossa, la classe politica cantonale non ha saputo fare altro che abbassare la testa e dire “ja”.
La recente decisione di aprire FFS Cargo a una importante partecipazione azionaria di potenti azionisti privati mostra quale sarà la via che il trasporto pubblico (di persone e di merci) intende seguire in Svizzera. Meyer protagonista, ma con la benedizione di tutta la classe politica (a cominciare dai partiti presenti in Consiglio Federale).
Non ci mancherà, anche perché ha posto le basi affinché il suo successore sia in grado di fare anche peggio di lui.

Fonte: MPS- Ticino

domenica 18 agosto 2019

Linee di condotta

Dal "Manifesto del Partito Comunista"

I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero d’una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare.


lunedì 12 agosto 2019

Francia-Italia: Attivista arrestato dopo 18 anni



Vincenzo Vecchi avait participé en 2001 à la manifestation contre les puissants de la Terre lors du sommet du G8 de Gènes. Au cours de cette mobilisation, Carlo Giuliani, un manifestant, avait été tué par par la police. La répression avait été particulièrement violente pendant et après le sommet. Une dizaine de “Black bloc” avaient été condamné à des très lourdes peines de prison pour en faire des exemples, dont Vincenzo Vecchi. Celui-ci avait disparu et était en cavale depuis 18 ans, réfugié depuis de nombreuse années dans un village en Bretagne.
Vincenzo Vecchi a finalement été interpellé le jeudi 8 août et placé en détention à la prison de Vezin (Rennes) en attendant sa possible extradition vers l’Italie. Il comparaîtra devant la chambre d’instruction de Rennes le mercredi 14 août à 9 h.

sabato 10 agosto 2019

"Analfabetismo di ritorno" in Svizzera

Cioè "comprensione uguale a zero"

Uno svizzero su sei non sa né leggere, né scrivere. O meglio: ascolta, legge, magari trascrive. Ma non è in grado di andare a fondo sui contenuti. Il livello di comprensione è basso. Li chiamano analfabeti di ritorno. Perché hanno avuto un normale percorso scolastico di alfabetizzazione per poi perdere le competenze per strada.

Però votano, eccome se votano, firmano postulati, iniziative, referendum e la chiamano anche ... democrazia diretta.

Capito perché vengono eletti sempre i soliti e spadroneggiano le grandi famiglie?

mercoledì 7 agosto 2019

Tutti sulla stessa barca ?


Fonte:mps.ti@bluewin.ch

Presentazione del nuovo stabilimento FFS di Castione: ancora e solo aria fritta!!!

Con la tradizionale pomposità che contraddistingue gli appuntamenti pubblici in Ticino del CEO delle FFS Andreas Meyer questa mattina  si è ripetuta la solita messa in scena.
Come si ricorderà, in occasione del dibattito pubblico che aveva anticipato la votazione popolare dello scorso 19 maggio sull’iniziativa Giù le Mani dall’Officina le FFS avevano subdolamente evitato di dare qualsiasi informazioni in merito al piano industriale e conseguentemente ai posti di lavoro previsti nello stabilimento di Castione.  La presentazione del piano industriale era stata rinviata alla data odierna.
Questa mattina le FFS, con la consueta presenza dei paggi di corte Branda,  Zali e Vita  tutto si è detto e fatto ma non si è presentato alcun piano industriale minimamente degno di questo nome. Forse per la semplice ragione che non vi è nessun piano industriale. Il nuovo stabilimento industriale servirà, come previsto, unicamente quale deposito dei treni che circoleranno sul territorio ticinese ed alla manutenzione di poche locomotive fino al momento in cui verranno rottamate.
Il Movimento per il Socialismo  non è per nulla sorpreso di questa ennesima sceneggiata. Considera però scandalosa e irresponsabile la complicità delle autorità cantonali e comunali così come dei principali partiti politici che avevano fatto attivamente campagna per affossare l’iniziativa popolare Giù le Mani dall’Officina, unico strumento che avrebbe permesso di mantenere ed incrementare i posti di lavoro in Ticino. Quest’atteggiamento delle autorità e dei partiti politici è un tradimento verso gli interessi degli abitanti di questo cantone.

È proprio il caso di dire "tutti sulla stessa barca, appassionatamente", meno gran parte dei cittadini.


martedì 6 agosto 2019

Ticino felix: 50 milioni di franchi buttati dalla finestra

Ecco i risparmi che fanno i ministri con i soldi pubblici

Fonte: mps.ti@bluewin.ch


Aeroporto Lugano Agno: forse è ora d’aprire gli occhi, il giocattolino è rotto!

Nel corso dei prossimi anni anche Swiss abbandonerà lo scalo di Lugano Agno. Questa notizia, pubblicata dalla Sonntagszeitung nella sua edizione del 4 agosto 2019, non è che la prova del nove di quanto MPS ha affermato e ribadito a più riprese negli scorsi mesi:
Il previsto investimento pubblico con oltre 50 milioni di franchi per il rilancio dello scalo di Lugano Agno sarà un buco nell’acqua. Non vi sono ragioni economiche, commerciali, aziendali e/o turistiche che giustifichino il mantenimento e tanto meno lo sviluppo dell’aeroporto di Agno quale struttura pubblica o di interesse pubblico.
Anche lo studio dell’università di San Gallo, alla base della proposta di investimento di oltre 50 milioni (con un possibile ritorno nelle cifre nera non prima del 2032),  è costruito attorno all’ipotesi del mantenimento del volo di linea Lugano-Zurigo. Tesi ripresa e ribadita nel messaggio dell’esecutivo di Lugano.
Ciò che però le autorità luganesi e di sponda le prese di posizioni del Consiglio di Stato si sono guardate bene dal rendere pubblico è che Swiss, da tempo, ha segnalato alla proprietà la messa in discussione del volo di linea Lugano-Zurigo. Dunque la proprietà ossia il Municipio di Lugano ed il Consiglio di Stato hanno nascosto ai rispettivi legislativi così come all’opinione pubblica una fondamentale informazione.
Inutile nascondersi dietro un dito ed affermare che non vi è ancora una decisione definitiva. Questa è la prospettiva e le affermazioni del CEO di Swiss Thomas Klühr non sono che la conferma di un’evidenza.
Così come per il fumoso e abortito progetto Mizar il tandem formato dagli esecutivi della Città di Lugano e cantonale ci sta proponendo uno spreco di soldi pubblici senza nessuna prospettiva. Forse sarebbe ora che aprano gli occhi e se ne facciano una ragione: il giocattolino di Lugano Agno si è rotto e non serve incaponirsi.
Per questa ragione chiediamo al Consiglio di Stato:
1.     Per quale ragione, pur sapendo che il volo di linea Lugano-Zurigo nel corso dei prossimi anni verrà soppresso, ha deciso di imbarcarsi in un progetto milionario che non ha futuro?
2.     Perché non ha ritenuto necessario informare l’opinione pubblica ed il Gran Consiglio che Swiss ha, da tempo, segnalato la messa in discussione del volo di linea Lugano-Zurigo?
3.     Anche alla luce delle dichiarazioni del CEO di Swiss concorda che bisogna rinunciare, per lo meno come ente cantonale, a gettare dalla finestra milioni di franchi per un inutile e fallimentare rilancio dello scalo? E dunque bisogna rinunciare a presentare un messaggio al Gran Consiglio per la partecipazione a questo fallimentare progetto di rilancio dello scalo di Lugano Agno?

Per il Gruppo MPS-POP-Indipendenti

domenica 28 luglio 2019

Lugano:Italia (e anche peggio)

Lugano: Italia (e anche peggio)

Non so quanti ticinesi abbiano visto lo spot pubblicitario della città sul Ceresio trasmesso in prima serata su Telelombardia, né conosco le loro impressioni. In una manciata di secondi si parla di natura incontaminata, ricchezza, tranquillità, cultura, divertimento, insomma dell'isola felice a due passi dal confine lombardo. Se l'esperto in comunicazione della città intendeva veicolare questo messaggio direi che ha fatto centro, ma solo nella fantasia dei telespettatori perché nel quotidiano quel tipo di isola, oggi, non c'è.
Lugano è la città con il paesaggio urbano più deturpato (eufemismo) dal Cantone Ticino, saccheggiato da faccendieri, architetti e palazzinari che operano solo con la logica del mercato e dei ricavi, la città con l'ateneo più caro della Svizzera, gli stipendi più bassi, gli impieghi meno probabili, gli affitti e i posteggi più salati, il traffico congestionato, un lago asfittico e  plastificato, l'aria puzzolente d'estate e d'inverno per ozono e polveri fini.
Non sto giocando a "smerdatutto", credetemi, e nemmeno do la colpa all'esercito di frontalieri che ogni giorno affollano un panorama metropolitano sempre più vicino al collasso. Sono 57 anni che ci vivo e ho visto la città rivoltata come un calzino da una truppa di "ragionieri della politica" (altro eufemismo) che ne hanno desertificato il centro storico (oggi ci sono solo turisti e negozi per vip) e spinto i residenti in aree limitrofe, dentro casermoni con  tetti rigorosamente piani per ospitare le antenne di telefonia mobile che, forse, farebbero invidia solo ai più irriducibili sostenitori del socialismo reale.
Eh sì, così stanno le cose nella "regina del Ceresio", ormai neanche più lontana parente di quella "Lugano bella" a cui dettero forzato addio gli anarchici tanto tempo fa.



mercoledì 17 luglio 2019

Gran Bretagna: Notizie su Julian Assange



Des documents ont été publiée ces derniers jours prouvant que Julian Assange était espionné 24h sur 24 par une agence de sécurité espagnole (Undercover Global S. L) puis équatorienne (Promsecurity) durant son séjour de 7 ans à l’ambassade d’Equateur à Londres dans laquelle il s’est réfugié ces sept dernières années. Cet espionnage avait lieu à la demande des autorités équatoriennes. Par ailleurs les agents de sécurité de l’ambassade devaient tout les jours surveiller chaque mouvement d’Assange, enregistrer ses conversations et prendre note de son humeur. L’équipe a également procédé à un examen de l’écriture manuscrite dans son dos, qui a donné lieu à un rapport de six pages.
Des entrevues entre Assange et son avocat ainsi que des entrevues avec des visiteurs ont notamment été filmées et ce malgré des mesures de sécurité mise en place par Assange telles que l’utilisation d’un dispositif de distorssion des voix. D’autres mesures de sécurité étaient utilisées par Assange telle que l’utilisation d’un dossier recouvrant la feuille de papier sur laquelle il écrivait pour empêcher tout appareil photo potentiel de zoomer sur ses notes.
Au niveau de son extradition, les autorité britannique prétende qu’il ne sera pas envoyé dans un pays où il pourrait risquer la peine de mort. L’audience pour étudier la demande d’extradition vers les États-Unis aura lieu fin février 2020 au Royaume-Uni. En attendant Assange il reste enfermé à la prison de haute sécurité de Belmarsh, dans le sud-est de Londres (https://secoursrouge.org/Grande-Bretagne-Debut-de-procedure-pour-une-eventuelle-extradition-d-Assange).


Julian Assange en train d’être espionné

giovedì 11 luglio 2019

La Resistenza nel Paese Basco


Parla ATA. “Euskadi è ancora in guerra” La dissidenza basca dell’ETA alza la voce


"Un esercito che consegna le armi al nemico (come ha fatto il Provos in Nord Irlanda) è un esercito che si è arreso al nemico" dicono dagli ambienti vicini alle piattaforme internazionali di entrambe le dissidenze.

 La dissidenza di Euskadi Ta Askatasuna ha messo in dubbio che la lotta armata della formazione è scomparsa come ha detto Arnaldo Otegi, ex Batasuna e leader di Bildu, che descrivono oggi come un “social democratico” ripulito, in una recente intervista trasmessa da TVE. «Euskal Herria è ancora in guerra», dicono. i militanti ATA, che sono considerati “non un’organizzazione terroristica ma un’avanguardia politico-militare al servizio dei lavoratori baschi”.

giovedì 4 luglio 2019

Comunicato

Rendiamo attenta l'utenza che i politici in generale non sono, come da più parti e frequentemente ipotizzato, figli nostri.
Prostitute senza frontiere.


sabato 29 giugno 2019

martedì 18 giugno 2019

La DDR fu venduta

La DDR fu venduta.

Il 9 novembre del 1989 il muro si sbriciolò cogliendo tutti di sorpresa.
Il cancelliere Helmut Kohl chiese consiglio ad Alfred Herrhausen, capo della Deutsche Bank, istituto finanziario che era ancora tedesco non solo di nome, su cosa fare con la DDR.
"Compriamola", fu la risposta del banchiere, con i miliardi di Deutsche Bank all'Unione Sovietica per aiutare Gorbaciov a convincere i suoi sulla necessità delle "riforme". La Germania est costò all'incirca quattro marchi a metro quadrato, due euro, per i suoi 108 mila chilometri quadrati, una volta e mezza la Baviera. Troppo cara? Decidete voi. Certo, agli olandesi andò meglio nel 1626, si comprarono dai nativi l'isola di Manhattam per 24 dollari, senza intermediari, ma questa è un'altra storia.
Alfred ed Helmut si davano del tu e il Cancelliere si fidava ciecamente dell'amico. Sembra che Herrhausen non pretendesse alcun compenso, ma fu considerato ugualmente pericoloso dagli ultimi militanti della Rote Armée Fraktion che lo uccisero la mattina del 30 novembre, tre settimane dopo la caduta del muro,  con un ordigno telecomandato.
Altri tempi. Oggi i consiglieri dei politici costano. A Berlino e nelle capitali UE sono centinaia,  migliaia, messi lì per valutare qualsiasi progetto in base al profitto, mica sulla sostenibilità o sull'importanza politica, sociale, morale. Spesso una loro consulenza nasconde una mazzetta, un tornaconto che sarà democraticamente scaricato sui costi complessivi da far digerire (eufemismo) ai cittadini. Il mantra è risparmiare sul costo del lavoro e sugli investimenti per aumentare gli utili. Il risultato (restando in Germania) è la Deutsche Bahn, le ferrovie, ieri puntuali ed efficienti, oggi bersaglio delle critiche di passeggeri inferociti e bisognose di investimenti sempre più costosi.
Ma, allora, l'importante era liquidare la DDR e con essa incoraggiare un "segretario generale" minimo a liquidare se stesso e la sua nazione. Cosa sia cambiato in meglio, dopo 30 anni,  per i salariati di ogni categoria, lo dicono le cronache dentro e fuori continente, Svizzera compresa.

domenica 16 giugno 2019

Succede anche a Lugano, Svizzera felix

Il teatrino



I commedianti


L' Alternativa

In margine al ventilato sgombero del Centro sociale autonomo autogestito (CSOA) per far posto alla cosiddetta Cittadella delle opportunità sociali (eufemismo) a PAGAMENTO !