martedì 31 marzo 2020

La giornata pandemica del giornalista di regime

Il signor Lorenzo Erroi, dalla spalla destra del quotidiano "La Regione", ci racconta come passa le giornate durante la campagna di primavera 2020 del CV-19.
Lo fa, badate bene, su invito del suo mega direttore, con magari la presunzione che ciò interessi lettori veri o presunti.
Non è infatti così, visto ciò che il Cantone sta passando e paga di tasca propria.
Ovviamente, nella società liquida di questo primo scorcio di secolo, ognuno può sbroccare a suo piacimento, fatti suoi. Se poi il leone da tastiera appartiene alla categoria dei fedeli soldati di regime, l'ovvio è di rigore.
Allora perché queste righe?
Semplice: Per aver occupato spazio altrimenti dedicabile a notizie più utili, nelle edizioni dei prossimi giorni mi aspetto, per educazione e civico rispetto, le scuse del quotidiano verso coloro che rischiano il "pelotto" tutti i giorni al fronte (quello vero!) esercitando la propria attività professionale, verso chi ha avuto contagiati, ricoverati, dimessi, per non dire dei morti.
Perché?
Ancora più semplice: Quando il periodo è serio, le prospettive incerte e/o tendenti al grigio notte, il paese in ginocchio se non fosse per l'operatività di migliaia di operatori sanitari transfrontalieri (a proposito, il numero chiuso nei nostri atenei per l'accesso alle varie facoltà di medicina  è ancora in corso?), certi "sforzi informativi" sarebbero da cestinare, esattamente come di regola si fa quando arrivano in redazione contributi di scarso interesse pubblico,offensivi o inattendibili.
Per quelli non in linea (alternativi, antagonisti) lasciamo perdere, si sa da tempo dove vanno a finire.
Mala tempora currunt, vero, ma anche l'andazzo a cui ci siamo abituati senza batter ciglio ha fatto la sua parte.




domenica 29 marzo 2020

Genova: Via Fracchia 28.03.1980

Un abbraccio fraterno a Barbara che, come suo solito, non cessa di mandarle a dire. Il ricordo dei suoi compagni assassinati a freddo in Via Fracchia (28.03.1980) è essenzialmente un messaggio di profonda umanità.


sabato 28 marzo 2020

Covid 19: I padroni vogliono ricominciare a fare profitti



Comunicato MPS del Cantone Ticino (Svizzera felix)

Nessun passo indietro! Le attività produttive non fondamentali e socialmente necessarie devono rimanere chiuse! Tutte!
1. Abbiamo sostenuto la decisione del governo e pensiamo che sia necessario continuare su quella linea per le prossime settimane, senza far alcuna marcia indietro come, invece, sembra profilarsi almeno in parte dalle notizie che filtrano dal Consiglio di Stato.
2. Le ragioni alla base della necessità di continuare nella linea seguita in questa ultima settimana, piuttosto approfondendola che allentandola, sono dettate da un evidenza: nulla finora è cambiato nella progressione del contagio rispetto ad una settimana fa. Anzi, gli ultimi giorni hanno visto un ulteriore incremento dei contagi, degli ospedalizzati e dei morti.
3. Le modifiche al decreto che si stanno manifestando in queste ore vanno in direzione, come ha voluto il Consiglio federale che ha accolto così le pressioni padronali, di una modifica della logica precedente; non più un divieto con delle eccezioni, ma di fatto la possibilità di lavorare per tutte quelle aziende che certificano di lavorare solo per attività necessarie e rispettando le prescrizioni di sicurezza e salute per i lavoratori e le lavoratrici. Il Governo ticinese, dopo aver giocato di sponda con il Consiglio federale e AITI, dice che un certo numero di aziende, quelle più importanti dal punto di vista economico e politico, quelle che probabilmente servono la filiera dei grandi gruppi nazionali, potranno aprire! Il Consiglio di Stato dovrebbe avere il coraggio almeno di rispondere alle seguenti domande: cosa è cambiato dal punto di vista dell’epidemia per giustificare la levata parziale del blocco imposto alle industrie non essenziali? Perché 100, 200 o 300 fabbriche potranno aprire mentre migliaia di piccole attività (ristoranti, bar, parrucchieri) e di altre fabbriche dovranno restare chiuse?

4. Le “garanzie” (informazione dei lavoratori, etc.), sono un déjà vu. Sono condizioni che la parte più debole, i salariati, non riescono ad imporre in tempi normali, figuriamoci in tempi come questi.
Nella sua conferenza stampa il Consiglio Federale ha insistito sulla necessità che l’azienda debba “dimostrare” di lavorare in sicurezza e di svolgere attività urgenti e necessarie. Ma “dimostrare” a chi? Chi controllerà la situazione? Chi potrà verificare che effettivamente le cose stanno come autocertificate? Chi verificherà che non vi è stato nessun contagio dovuto a queste situazioni lavorative?
Le strutture che normalmente svolgono questa funzione di controllo sono di fatto inattive. La giusta chiusura dell’amministrazione cantonale ha di fatto messo fuori azione l’ispettorato del lavoro, così come la SUVA: le due strutture che potrebbero e dovrebbero verificare le situazioni.
L’esperienza degli ultimi anni ha già mostrato quanto poco realistici e quanto vuoti i richiami al controllo delle condizioni di lavoro se non accompagnate da reali disposizioni che permettano questi controllo. Lo abbiamo visto con il dumping salariale: un controllo sostanzialmente fallito (il dumping si è affermato) proprio a causa della timidezza dei meccanismi di controllo del mercato del lavoro.
6. Non vi sono dubbi che la procedura verso la quale ci si orienta porterà ad un aumento di coloro che lavoreranno (in particolare nel settore industriale e artigianale); era questa l’intenzione degli industriali e dei loro dirigenti.
Si tratta di una decisione irresponsabile che alimenterà il propagandarsi del contagio, un aumento dei ricovi ed anche un inutile sacrificio di vite umane. Che senso ha vietare agli over 65 di uscire di casa, andare a fare la spesa, chieder loro di rinunciare anche ad una semplice passeggiata e contemporaneamente permettere a migliaia di persone di spostarsi, utilizzare i mezzi di trasporto pubblici, e trascorrere in spazi ristretti 8 o 9 ore della giornata? Ancora una volta il profitto di pochi prevale sulla salute di tanti. Che senso ha bloccare per una settimana le attività produttive per poi riaprire nel momento in cui il virus sta raggiungendo il picco? Una scelta indegna. Perché la popolazione ticinese dovrà pagare un conto salatissimo per permettere alle società di AITI di continuare a macinare profitti, infischiandosene della nostra salute?! Se così non fosse, Modenini dovrebbe fare una cosa sola: confermare che per il rispetto della salute pubblica le industrie di AITI non apriranno e che continuano a sostenere il blocco delle attività produttive non necessarie! Non lo dirà mai perché i profitti di pochi devono prevalere sulla salute di tutte e tutti!

7. Ieri il presidente del Consiglio di Stato ha sottolineato che questo cedimento sarebbe condiviso anche delle organizzazioni sindacali. Una condivisione, se la notizia fosse confermata, incomprensibile e sconcertante, nettamente contradditorio con l’orientamento che, con fatica e forse un po’ con ritardo, il movimento sindacale aveva raggiunto negli ultimi giorni, convinto della necessità di vietare le attività produttive non necessarie.


8. È il momento di dimostrare coerenza e determinazione. L’MPS lancia un accorato appello popolazione ticinese affinché faccia sentire la propria voce in tutte le forme possibili: è necessario continuare con le misure adottate la scorsa settimana, per il bene della salute di tutte e di tutti. È in questi momenti che sarà possibile vedere da che parte stanno veramente i firmatari di vari appelli (i “ticinesi”, i medici, etc.) che si erano schierati a difesa dell’operato del consiglio di Stato. Oggi dovrebbero, per coerenza, far sentire nuovamente la loro voce, proprio perché altre priorità rispetto alla lotta al contagio sembrano in parte affermarsi. Eppure la situazione, dal punto di vista sanitario, non ci pare sia migliorata, anzi.

martedì 24 marzo 2020

E dopo il COVID 19 ?

                                         

                                        LAVORARE MENO - LAVORARE TUTTI !




martedì 17 marzo 2020

Tutti a casa ...


...molto meglio che gironzolare per bar e ristoranti ad immagazzinare porcherie e grassi iper saturi, come si nota dal numero dei lardosi vaganti sul territorio.

lunedì 16 marzo 2020

Si stava meglio quando si stava peggio


Ve ne siete accorti? L’aria è più respirabile, il traffico ricorda quello dei primi anni 70, tempi e rumori dilatati, assembramenti sportivo-festaioli azzerati. Vi sembra poco?
Certo, la pandemia è velenosa ma fa respirare il pianeta. È l’aspetto positivo del male, esattamente come quello negativo è insito nel suo esatto contrario, checché ne dicano i soloni della crescita infinita o i rimasugli di teologie obsolete.
Vi ricordate le domeniche senza auto di un’era geologica fa? Gli sciami di giovanotti per strada a mettere in guardia dalla dipendenza del petrolio, a rivendicare “trasporti pubblici gratuiti”, la parità salariale, il diritto al lavoro, scritto nelle costituzioni di mezzo mondo e mai garantito, e quel “lavorare meno, lavorare tutti” che cinquanta anni dopo è considerato quasi come uno slogan terroristico?
Il tempo che è trascorso ha solo reso i ricchi più ricchi, distribuito cianfrusaglie ai ceti medio bassi e un effimero contentino all’esercito di esuberi prodotti dal mercato finanziarizzato.
Si strogola sul rinvio degli europei di calcio e si fa silenzio perfetto sulla decantata (per decenni) qualità di vita rivelatasi incapace di stoppare un’influenza atipica. Ci si aggrappa alla mano da non stringere, a parametri di distanza da cantiere, alla rivalutazione del focolare quando per anni non si è badato a spese per sciogliere i pensieri dei cittadini comuni in discoteche, sale da gioco, movide, aperitivi e abbuffate varie.
Si vive di più? Forse, ma gli ultimi anni sono per molti peggio della galera, aspettando sedati, un giorno sì e l’altro pure, l’arrivo della signora in nero.
Il signor Corona un giorno se ne andrà e in tanti canteranno vittoria senza fare un cip sul prossimo futuro in cui verranno a trovarci altri suoi fratelli. Cerchiamo almeno di imparare dal passato.



venerdì 13 marzo 2020

Caso Moro/Brigate Rosse: Silenzi di Stato

Fonte. https://campagnadiprimavera.wordpress.com/author/insorgenze/

Il 16 maggio del 2009, nel corso di una cerimonia in ricordo di Aldo Moro tenutasi nella città di Bari, Massimo D’Alema rivelava una singolare circostanza che lo aveva visto trovarsi la mattina del 16 marzo 1978 davanti al garage dell’abitazione di via Montalcini pochi attimi prima dell'arrivo della Ami 8 con a bordo Maccari e Moretti e la cassa nella quale era rannicchiato Moro. In quella via, a pochi passi dal civico 8, il luogo dove il Presidente del Consiglio nazionale della DC venne tenuto prigioniero durante i 55 giorni del sequestro ed ucciso la mattina del 9 maggio 1978, abitava il padre del giovane D’Alema, il senatore del Pci Giuseppe D’Alema. Massimo invece, allora Segretario nazionale dei giovani comunisti, risiedeva in una strada vicina ed ogni mattina attendeva il genitore all’inizio di via Montalcini per recarsi insieme nelle sedi del partito. Ovviamente l’episodio riveste un semplice significato aneddotico, se non fosse che non se n’è mai trovato traccia nelle innumerevoli pubblicazioni prodotte dagli esponenti della scuola dietrologica, che al contrario hanno infarcito i loro scritti di minuziose ricostruzioni dei residenti e proprietari, veri, presunti e fantasiosi, delle vie e dei palazzi prospicienti e addiacenti i luoghi del sequestro: via Fani, via Montalcini, via Caetani e via Gradoli. Senza troppo approfondire, ne abbiamo davvero lette di tutti i colori e per tutte le fantasie sul controllo da parte dei Servizi segreti di interi isolati, condomìni, strade, di violinisti agenti doppi, principesse, sedi di ambasciate, residenze vaticane, membri di Gladio ed altro ancora. Per questo motivo appare assai singolare che l’allora senatore Sergio Flamigni, membro della Sezione problemi dello Stato del Pci, autore ed ispiratore delle più ostinate tesi dietrologie, non abbia mai accennato nelle sue molteplici pubblicazioni a tanta singolare, seppur fortuita, contiguità tra l’abitazione del suo compagno di partito, senatore Giuseppe D’Alema, e il civico 8 di via Montalcini. Un silenzio che sembra proprio una imbarazzata omissione

Fonte:www.massimodalema.it

«Ricordo bene quella mattina. Vivevo a Roma, a Villa Bonelli, e non lontano da me abitava mio padre che, in quel momento, rivestiva la carica di presidente della commissione Finanze della Camera dei Deputati. All’inizio della legislatura, infatti, i comunisti assunsero alcuni importanti ruoli istituzionali, in quanto erano diventati una forza nell’ambito della maggioranza, sia pure nella forma dell’astensione. La sede della Fgci era in via della Vite, a due passi dal Parlamento, e tutte le mattine mio padre ed io andavamo a lavorare insieme, con una sola automobile. Uscivo presto, mi incamminavo verso la casa dei miei genitori e con mio padre ci vedevamo all’angolo di via Camillo Montalcini. E’ un fatto che mi è rimasto in mente tutta la vita: ogni mattina ci incontravamo davanti al garage dove poi Moro sarebbe stato tenuto prigioniero dalle Brigate Rosse. E quel giorno, mentre ci stavamo recando a lavoro, arrivò la notizia del suo rapimento e del massacro della scorta».

mercoledì 4 marzo 2020

L'assalto alla diligenza


Fonte: http://www.operaicontro.it/

Il problema non è più come fronteggiare il corona virus, curare la malattia. Il problema è come garantire i guadagni ai padroni grandi e piccoli, vogliono tanti soldi freschi dallo Stato, per i dipendenti basta la miseria della cassa integrazione.

Mentre il corona virus sta imperversando sopratutto nelle ricche regioni del nord, gli approfittatori del contagio, con la scusa del fermo produttivo di alcune fabbriche sia in Europa che in Cina, si sono messi in moto immediatamente per avere dal governo cospicui aiuti economici.
Dopo appena una settimana di sospensione di alcune attività, e nemmeno in tutto il paese ma solo localizzate nelle regioni più esposte al virus, padroni grandi e piccoli, bottegai, commercianti e artigiani di ogni ordine risma e grado stanno dando l’assalto alla diligenza degli aiuti economici urlando ai quattro venti la loro “miseria”. I loro depositi bancari, le loro proprietà accumulate in anni di vacche grasse sfruttando i loro dipendenti sono svaniti nel nulla. Fino a ieri lo Stato non doveva interferire nei loro affari, oggi ne invocano, gridando, l’intervento.
Chiedono al governo un intervento immediato, una pioggia di milioni, che garantisca loro la continuità dei profitti anche in questi periodi di momentanea crisi degli affari.
Il governo dal canto suo, sensibile alle sirene del voto di queste classi sociali, oltre ad alcune misure come il blocco di tutte le attività scolastiche nelle regioni del nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), ha prontamente  risposto a questo accorato piagnisteo approvando un pacchetto di misure economiche a loro sostegno come ad esempio una sospensione per un anno delle rate dei mutui agevolati concessi da Invitalia alle imprese della zona colpita.
Ma mentre per i padroni e per  tutta questa piccola e media borghesia artigianale e commerciale il decreto concede proroghe e dilazioni nei pagamenti di tasse e di mutui, per gli operai e per i lavoratori c’è solo pane duro.
Il decreto infatti prevede: “la sospensione dello svolgimento delle attività lavorative per i lavoratori residenti o domiciliati, anche di fatto, nel comune o nell’area interessata, anche ove le stesse si svolgano al di fuori dell’area”. Ora a questi operai e lavoratori che lavorano nelle zone rosse che sono completamente sigillate, bene che vada possono usufruire della cassa integrazione ordinaria, perdendoci comunque quote considerevoli del loro salario.
Ma supponiamo il caso che un operaio abiti nelle zone cosiddette rosse ma che lavori in una fabbrica al di fuori dall’area che non è sottoposta in alcun modo al vincolo della sospensione, questo operaio come e da chi verrà pagato?
Il padrone in questione gli pagherà comunque il salario finché egli non possa recarsi di nuovo al lavoro?
Si metterà in malattia per non perdere salario?
L’azienda lo obbligherà ad utilizzare ferie o riduzione dell’orario di lavoro per coprire i giorni in cui non sarà al lavoro?
Mentre per il lavoro impiegatizio e scolastico è previsto e si può lavorare a distanza anche da casa (telelavoro o Smart Working) per la reale produzione il telelavoro non si può proprio fare per mere questioni fisiche. Se un operaio non sta sulla catena di montaggio ad avvitare bulloni la macchina non viene prodotta, se l’operaio non fa girare il tornio i pezzi non vengono prodotti, se gli operai stanno a casa loro la produzione si ferma completamente. Magicamente “grazie” al virus saltano fuori tutte differenze tra lavoro manuale e lavoro intellettuale che tutti sostenevano ormai superate dallo sviluppo tecnologico.
Ma andiamo con ordine per fare un minimo di chiarezza su tutta la questione della mancata presenza sul lavoro.
I padroni si sa non sono né benefattori dell’umanità né tanto meno degli operai. Il loro esclusivo interesse è solo quello di accumulare profitti sulla pelle degli operai schiavizzandoli nel lavoro produttivo, perciò vale il fatto che se non ti presenti al lavoro loro non ti pagano, altro che storie.
Di conseguenza è fuori di dubbio che mai pagheranno di tasca loro le giornate di lavoro perse dall’operaio e questo è un fatto assodato storicamente.
Un altro fatto è che se l’operaio in questione, impossibilitato a recarsi al lavoro per il blocco della zona rossa in cui risiede, decidesse di mettersi in malattia, sempre supponendo che trovi un medico disposto a concedergli questo “privilegio”, perderà il comporto dei giorni persi per malattia e, superando questo comporto, il salario diminuirà drasticamente.
Di fatto, come del resto era prevedibile, per superare questa fase dovrà attingere alle proprie risorse economiche per fronteggiare l’epidemia, o consumando le proprie ferie e le proprie riduzioni di orario oppure chiedendo una aspettativa, rimettendoci sempre e comunque quote di salario se non addirittura l’intero salario.
Micidiale a questo proposito un comunicato di una nota azienda della telefonia dove c’è scritto:  “L’azienda per tanto ha ritenuto di agire negli interessi dei dipendenti con le seguenti misure: fruizione di una giornata di ferie arretrate, Smart Working per chi non dispone di ferie arretrate, utilizzo delle ferie di competenza del 2020”, e lo chiamano interesse dei dipendenti.
Anche per i poveri lavoratori dei servizi la corda del padrone attorno al collo si fa sempre più stretta.
Ed il sindacato per fronteggiare i padroni e difendere gli operai in questo frangente che fa?
Nulla.
Al di la della solita richiesta di un tavolo, poco importa di che tavolo si tratti, basta che sia un tavolo in cui si discuta di tutto senza però chiedere e pretendere che le giornate perse dagli operai siano a carico dei padroni.
Stupefacente la stupidità del CGIL a questo proposito: istituire con urgenza un tavolo per condividere anche con le associazioni imprenditoriali gli strumenti ordinari e straordinari più idonei per la gestione dell’emergenza lavorativa, che si aggiunge a quella sanitaria”. I padroni suggeriranno di utilizzare la cassa in deroga là dove si può e  dove non si può di utilizzare ferie e permessi a carico degli operai e questi cialtroni, come al solito, acconsentiranno senza battere ciglio, tanto le ferie di cui si concederà l’utilizzo non saranno certo le loro

martedì 3 marzo 2020

Lo sviluppo delle auto elettriche

Il cobalto è un elemento base per la produzione delle nuove batterie. Estratto nelle miniere del Congo per le grandi industrie cinesi americane ed europee vi lavorano centinaia di migliaia di minatori di cui una buona parte bambini.

L’auto del futuro è elettrica, pulita, etica e sostenibile, così recitano molte pubblicità. Gran parte delle nuove applicazioni elettroniche (cellulari, tablet, computer, ecc) sono possibili grazie alle nuove batterie al cobalto. Il cobalto ha un gran pregio: stabilizza la carica e allunga la durata del “pieno” delle batterie. Il 60% della produzione mondiale del metallo arriva dalle miniere della Repubblica Democratica del Congo. Da tempo si è scatenata la guerra tra le multinazionali per impadronirsi delle miniere del cobalto. Gli operai e gli operai- bambini pagano il prezzo degli altissimi profitti dei padroni.
Nella Repubblica Democratica del Congo grande è la ricchezza delle materie prime, più feroce è lo sfruttamento e la povertà.
“oltre il 53% del cobalto in circolazione nel 2016 veniva estratto in RDC (66mila tonnellate su circa 123mila). È comprensibile quindi che la RDC sia oggi una destinazione molto ambita per le multinazionali, sia quelle che si occupano di estrazione, sia quelle che muovono le migliaia di tonnellate estratte verso le raffinerie – localizzate per la maggior parte in Cina.”
Diverse multinazionali fanno profitti con il cobalto del Congo. Industrie come Glencore, CDM, Randgold, China Molybdenum e altre hanno indirizzato le loro attività in RDC; ad esempio, gli svizzeri di Glencore concentrano nelle loro mani uno spaventoso 35% dell’intera produzione mondiale. Molte industrie hanno aperto stabilimenti in diretta prossimità dei siti estrattivi (da Volkswagen ad Apple, da Microsoft a Huawei).
Lo sfruttamento dei minatori è feroce. Incidenti e morti sono frequenti. Gli orari di lavoro superano spesso le 12 ore giornaliere, guadagnando in media uno o due dollari. L’esposizione a polveri contenenti cobalto causa malattie, asma e riduzione della funzione polmonare. L’ UNICEF ha stimato in circa 40.000 i bambini dai 6 ai 7 anni che lavorano quotidianamente nelle miniere.
Il Cobalto del Congo è un esempio della lotta tra le grandi industrie capitalistiche per impossessarsi delle materie prime. Evitiamo volutamente di chiamarle semplicemente “multinazionali”, anche se va di moda. Sono imprese capitalistiche, grandi, che operano in diversi paesi ma che conservano comunque una base nazionale e che vanno combattute non in quanto “multinazionali” ma in quanto fondate sullo sfruttamento operaio.
Fanno ridere coloro che auspicano la fine delle “multinazionali” sognando un capitalismo democratico, senza sfruttamento, fondato sulla libera concorrenza. È proprio la libera concorrenza che ha prodotto prima la concentrazione della produzione, quindi il monopolio ed un nuovo livello di concorrenza mondiale, con la sua lotta per accaparrarsi le materie prime.
Se le guerre per il petrolio sono iniziate in Medio Oriente (Iraq, Iran, Afghanistan, Siria, ecc)
Altre guerre si preparano.
In Libia ancora una volta per il petrolio. Nel resto dell’Africa per molte materie prime necessarie all’industria capitalista.
L.S.
Le notizie sono tratte da un articolo di Marco Simoncelli su Nigrizia da una inchiesta di Amnesty International e Afrewatch.

domenica 1 marzo 2020

Cosa mangiano i poveri

VIAGGIO NEI WURSTEL, IN ALTRI CIBI SPAZZATURA E NEL MONDO DELL’HARD DISCOUNT E DEI LORO NATURALI CLIENTI, I POVERI.

Tempo fa, su questo telematico, si è aperto un ampio dibattito su cibo destinato ai poveri, gli alimenti a prezzi ribassati venduti nei supermercati. Ebbene, da qualche decennio, dai primi anni novanta, sono spuntate come funghi intere reti di distribuzioni destinate ai poveri, gli hard discount. Ormai, in tutti i paesi, questi supermercati destinati ai poveri, affiancano quelli “normali” e i loro affari non devono andare male, visto che possono pagarsi la pubblicità anche con personaggi famosi. Tutte queste catene commerciali sono nate da quando si è affermata la globalizzazione, un caso? Non proprio come vedremo in seguito. La crisi poi, grazie a salari da fame, ai licenziamenti, ha dato il suo contributo allargando l’area dei potenziali clienti.
Mi sono trovato a frequentare gli hard discount da quando ho scoperto che il cibo destinato agli umani può costare di meno di quello specifico per animali, avendo allora dei gatti in giardino ho sperimentato la convenienza della spazzatura dei cibi spazzatura. Chiaramente il confronto l’ho fatto con cibo per gatti, di basso prezzo che si trova negli stessi esercizi commerciali, il confronto con il cibo per animali di lusso sarebbe del tutto improponibile. Anche per gli animali si propongono le divisioni in classi dei loro padroni e i miei sono gatti proletari.
Andiamo, però, ad analizzare alcuni prezzi degli hard discount par renderci conto della realtà. Ci riferiamo all’area palermitana, in altre zone d’Italia possiamo trovare delle variazioni verso l’alto ma sostanzialmente la cosa non cambia. È da specificare che questi non sono prezzi ribassati ma ordinari, prodotti da ditte non legate necessariamente al marchio del supermercato, prodotti dai cui si ricava un profitto! Ebbene, in questi esercizi commerciali per poveri è possibile trovare mortadella confezionata a 30 centesimi di euro l’etto (3€ il chilo), wurstel a 19 centesimi all’etto (1,9 € al chilo), confezioni di prosciutto cotto a 45 centesimo all’etto e tanti altri prodotti a prezzi veramente stracciati. Prezzi ordinari e non sottoposti a regime di sconto! E che dire dell’aceto a 65 centesimi al litro, oppure dell’olio e vino a 99 centesimi al litro, ma anche la pasta a 55 centesimi al chilo? Ma il miracolo avviene con formaggi a pasta filata a 30 centesimi all’etto, prezzi inferiori alle materie prime da cui, in teoria derivano. Soprattutto per i formaggi, in teoria, ci vorrebbero almeno 4 € di latte per produrre un kilo di formaggio, com’è possibile produrre un prodotto trasformato a un prezzo di molto inferiore alla materia prima da cui deriva? Un mistero, certo che i miei gatti si sono sempre rifiutati di mangiare questi formaggi, qualcosa vorrà dire.
GLI HARD DISCOUNT E GLOBALIZZAZIONE.
Tutte le catene di distribuzione hard sono nate, almeno in Italia e in Europa, nei primi anni novanta del secolo scorso, in coincidenza con l’affermarsi della globalizzazione e con i nuovi sistemi di trasporti intermodali, una coincidenza? Non proprio, in realtà lo sviluppo dei cibi e delle merci a basso costo è stato possibile grazie alla facilità e all’estrema convenienza del commercio che ha permesso il procurarsi materie prime a bassissimo costo. Contemporaneamente gli accordi commerciali internazionali hanno permesso in Europa, e quindi anche in Italia, nuovi processi trasformativi degli alimenti fino allora vietati. Solo con queste congiunture è stato possibile la diffusione degli hard discount, figli diretti della globalizzazione e della crisi. Chiaramente tutto ciò ha provocato distruzione ambientale, dissesto economico nei paesi del terzo mondo ed ha accentuato il divario tra poveri e ricchi. Un esempio? L’olio di palma, ingrediente principale di tutti i prodotti da forno “per il popolo”, è coltivato nei tropici previa distruzione di foreste oppure imponendo in molti paesi questa coltura, al posto delle coltivazioni locali. Interi ambienti ed ecosistemi del sud est asiatico sono stati distrutti per permettere la produzione di cibo a basso costo! Senza considerare l’immenso impatto ambientale delle navi che solcano i mari per trasportare queste merci. Tutto questo per che cosa? Per il profitto, l’unico motore che muove le attività umana nel nostro sistema economico e sociale.
Sono stati anche gli accordi commerciali, però, a spianare la strada ai cibi e prodotti sottocosto. L’Unione Europea, con uno schizofrenismo imbarazzante e strumentale, da un lato ha condannato formalmente pratiche dannose alla salute e all’ambiente nel proprio ambito, come l’uso dei diserbanti sulle graminacee per farle seccare, dall’altro ha permesso l’importazione di derrate alimentari da paesi che applicavano queste pratiche. In questo modo gli imprenditori dei cibi a basso costo hanno avuto un’altra opportunità per propinare le loro schifezze: farine e altri derivati a basso costo pieni di pesticidi. La diffusione degli hard discount è stata preparata, però, da un’assillante pubblicità sugli sconti e sul basso costo degli alimenti, si doveva indurre la gente a risparmiare sul cibo per indirizzare il consumo su altri beni. La vera ragione di esistere dei supermercati per i poveri, mantenere salari da fame risparmiando sui bisogni primari.
COME MANGIANO I POVERI.
Quali sono i nuovi processi produttivi che hanno permesso di abbassare i prezzi di molti alimenti? Sicuramente il più importante è “la carne separata meccanicamente”, una pratica sempre diffusa negli USA, introdotta con i nuovi accordi commerciali anche in Europa e in Italia. Di seguito posto dei link di approfondimento che invito i lettori alla consultazione e lettura.
La carne separata meccanicamente, come si legge sui link postati, consiste nel macinare tutte le parti non utilizzabili per l’alimentazione diretta di pollo, tacchino o maiale che vengono finemente macinati e aggiunti alla carne in molti prodotti alimentari. In teoria il processo dovrebbe separare solo la carne attaccata alle ossa, in realtà si macinano anche parte delle ossa e tutto ciò che una volta era buttato e costituiva uno scarto, come le orecchie, la coda, il cervello, gli occhi e le interiora di scarto non utilizzabili. Tutto è macinato finemente, trattato con ammoniaca, reso inodore e insapore per poi essere colorato e “insaporito” con aroma artificiale e stabilizzato con abbondanti dosi di Nitrito di Sodio, nota sostanza cancerogena. La carne separata meccanicamente così ottenuta rientra, in varie proporzioni in molti prodotti alimentari come wurstel, mortadella, cotolette ma anche tortellini ravioli e altri prodotti a base di carne a basso costo, ma non solo. Qualche lettore ingenuo potrebbe chiedersi, come mai questo è permesso dall’agenzia sulla sicurezza alimentare, in verità a questo ente interessa solo che non si abbiano problemi di salute immediati, e non quelli cronici. Ecco allora spiegato l’arcano dei prezzi stracciati degli hard discount, si utilizzano prodotti che una volta rappresentavano uno scarto.
È vergognoso e moralmente inaccettabile che una società civile destini per l’alimentazione umana simile schifezze, ma è ancora più vergognoso che si accetti l’idea stessa del cibo spazzatura, che il cibo sano e semplice sia accessibile solo a chi se lo può permettere. La sana alimentazione è un diritto da garantire a tutti, punto, ma questo può avvenire solo se si produce per il soddisfacimento dei bisogni e non per il profitto.
P.S. oltre alla carne separata meccanicamente ci sono altri processi produttivi artificiosi utilizzati per altri alimenti e prodotti alimentari che permettono i bassi costi degli hard discount.
Pietro Demarco