venerdì 30 marzo 2018

Massacri sionisti, ovviamente impuniti

Gaza : l’armée israélienne réprime une manifestation et tue 14 personnes

A l’occasion de la Journée de la Terre, l’ensemble des organisations de la résistance palestinienne organisait une Marche pour le retour de tous les réfugiés palestiniens et pour exiger la fin du blocus de la bande de Gaza qui dure depuis 11 ans.
Des dizaines de milliers de personnes se sont rassemblées aux abords de la frontière israélienne. En réaction, l’armée d’occupation a déployé une centaine de snipers qui ont ordre de tirer sur quiconque s’approche de la frontière.
Le bilan est actuellement de quatorze morts (treize manifestants et un fermier) et 1200 blessés.

Fonte:https://secoursrouge.org/Gaza

Le stragi impunite sul posto di lavoro continuano

Redazione di Operai Contro,

A Livorno, il 28 marzo, un’esplosione è costata la vita a Nunzio Viola e a Lorenzo Mazzoni. Un altro operaio è ferito gravemente e combatte per la sua vita. Un operaio di 52 anni,  è morto in un “incidente” sul lavoro avvenuto a San Godenzo, in Mugello (Firenze). A Bologna un altro operaio è morto folgorato.

Potremmo continuare perchè ogni giorno 3 o 4 operai  vengono uccisi per il profitto dei padroni.

Noi operai pensavamo che fosse questa la causa, ma ci sbagliavamo.

Mario Fuso, membro della segreteria Cgil della Toscana con delega alla salute e sicurezza sul lavoro.ha scoperto il perchè: ”  Una vera cultura della sicurezza del lavoro – osserva Fuso – “in Italia stenta ad affermarsi, questo è il punto negativo dal quale partiamo, in Italia sappiamo che manca il piano nazionale di strategia sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro e come dire questo fa il titolo grosso, cioè è elemento di cultura predominante che manca e questo lo si riscontra quotidianamente, purtroppo”. Livorno – aggiunge – “è una città molto attaccata al porto. Noi abbiamo in attivo un protocollo di legalità e sicurezza con l’autorità portuale e le parti datoriali che operano all’interno del porto, ma in quel settore specifico (dove è avvenuto l’incidente, ndr) non è operativo, quindi c’è difficoltà ad applicare quel protocollo, ci sono delle aree ‘extraterritoriali’, per così dire, che non sono coperte”.

“La contaminazione reciproca fra le parti, in questo caso le parti sociali e le parti datoriali, è determinante – insiste il rappresentante Cgil –, nell’attenzione, nel controllo, nelle ispezioni delle istituzioni. È il primo passaggio da fare. Noi stasera ci incontriamo proprio con la regione Toscana, con il presidente Enrico Rossi, proprio per ribadire questo concetto e per alimentare l’idea che è necessario attivarsi meglio e di più”. I protocolli per la sicurezza – ricorda Fuso – “nei punti più strutturati sono molto diffusi. Il problema è che in Italia prevale un’attività economica legata alla piccola e piccolissima impresa, ed è lì che dobbiamo fare uno sforzo ulteriore, negli apparati produttivi più piccoli”.

Per i dirigenti della CGIL è solo questione di cultura. La colpa è della piccola o piccolissima impresa. I padroni delle grandi fabbriche sono a posto hanno cultura, pagano buone mazzette ai sindacalisti.

Fuso non dire cazzate, più è grande la fabbrica, maggiori sono le stragi di operai. Potremmo parlare delle stragi dell’amianto, della Marlene, della Tyssenkrup e di altre miglia di fabbriche. Dove i dirigenti sindacali si sono sbafati con il padrone miliardi per affermare la cultura della sicurezza.

C’è un  solo modo per affermarla è quella di eliminare il lavoro–salariato e i dirigenti sindacali corrotti

Un operaio di Livorno

Stazione di Genova, 29.03.2018

Ricordando i compagni massacrati dai corpi speciali dello Stato nel 1980


http://www.abanews.it/aba-news-categorie-news/scritta-br-in-stazione-a-genova-cornigliano/

martedì 27 marzo 2018

I "cambiamenti" che portano le elezioni in Italia

Fonte:http://www.operaicontro.it/?p=9755750581

La signora Elisabetta Casellati, a fianco di Berlusconi dal 1994, è stata eletta alla presidenza del Senato, previo accordo bipartisan fra i due schieramenti maggioritari ( M5Stelle e Lega).

La signora nel 2005, appena nominata sotto-segretatrio alla Sanità, piazzò la figlia nella segreteria del Ministero.

Questo, ovviamente, non fu interpretato come "interesse privato in atti di ufficio".

Aspettando nuovi exploit, facciamo finta di continuare a sorprenderci !



lunedì 26 marzo 2018

La pistola del PD:50.000 volt che uccidono

Operai che vi preparate a protestare contro il governo dei padroni, potreste imbattervi nella pistola “taser”. Introdotta nel 2014 dal governo Renzi, sarà sperimentata a partire da questi giorni, sotto l’egida del governo Gentiloni, quindi bisognerà tenerlo presente. La pistola taser ha già ucciso centinaia di persone negli Stati Uniti e in Canada, come denuncia Amnesty International. Quando il governo Renzi ne aveva introdotto l’uso, disse per bocca di Alfano che la pistola taser, sarebbe servita a derimere le risse allo stadio. Infatti, mentre tanti paesi sono alle prese con il terrorismo, l’Italia è in balia delle risse allo stadio. Poiché come ricorda l’articolo qui sotto: “Gli apparecchi saranno messi a disposizione degli uomini delle volanti”, se ne deduce che la pistola taser potrà essere usata dove capita. Forse è in programma la costruzione di stadi ovunque?

Fonte:http://www.operaicontro.it


Allego articolo del Sole 24 ore
Anche in Italia sarà sperimentata dalla polizia la pistola taser, un’arma che non dovrebbe uccidere ma solo stordire il soggetto contro cui si utilizza. Il funzionamento è basato sul rilascio di una scarica elettrica che raggiunge un alto voltaggio (50mila volt). Il timore nell’uso di questo dispositivo è strettamente connesso alla presunta interferenza che potrebbe creare col cuore, il quale potrebbe finire in fibrillazione. La sperimentazione inizierà in sei città: Milano, Brindisi, Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia. La circolare è stata firmata dal capo della direzione Anticrimine.
L’arma era già stata prevista. Nel 2014 l’ex ministro Angelino Alfano l’aveva inserita nel decreto legge sulla sicurezza negli stadi. Uno strumento di cui dotare le unità mobili che intervengono durante gli scontri delle tifoserie. «Ok alla sperimentazione», ha commentato Stefano Paoloni, segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia (Sap). Aggiunge che «accogliamo la notizia con piacere, la pistola taser è uno strumento fondamentale per gli operatori di polizia. Un vero passo in avanti, un’opportunità che riduce il contatto fisico tra poliziotto e aggressore, analogamente all’utilizzo dello spray al peperoncino, già testato dagli operatori, che allo stesso modo, permette di calibrare l’uso della forza, spesso oggetto di propaganda antipolizia nel nostro paese».
30 taser per un periodo di prova di 3 mesi
Le forze di polizia per il momento avranno in dotazione 30 taser che saranno assegnati per un periodo di prova di tre mesi. Gli apparecchi saranno messi a disposizione degli uomini delle volanti, i quali prima dovranno seguire un percorso di adeguata formazione nel rispetto di un disciplinare approvato dal Ministero della Sanità.
Amnesty International: attenzione, può uccidere.
«Bisogna fare molta attenzione, la possibilità che armi non letali producano effetti fatali è reale». A sottolinearlo è Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, commentando il via libera alla sperimentazione in Italia della pistola taser. Amnesty, da parte sua, monitora l’introduzione in Italia di queste armi capaci di bloccare un fuggiasco ma anche di evitare il «corpo a corpo» in caso di aggressione, raccomandando «la massima attenzione e preparazione da parte di chi la impugnerà». Il rischio «di un cattivo uso con conseguenze letali» è, secondo Noury, da tenere in alta considerazione. «Abbiamo studiato per anni l’uso della pistola taser negli Stati Uniti e in Canada e i morti sono stati centinaia. Occorrono dunque formazione e regole precise, anche se poi rimarrà sempre il rischio di fare vittime: quando si spara, il più delle volte al termine di un inseguimento, non si ha certo contezza della storia clinica del bersaglio»La pistola del PD:50.00

venerdì 16 marzo 2018

16 marzo 1978, un gruppo di operai e precari rapisce Aldo Moro. Erano le Brigate Rosse

A quarant’anni di distanza nell’immaginario riprodotto dalle narrazioni complottiste la mattina del 16 marzo 1978 via Fani appare un luogo spettrale presidiato dai servizi segreti, un segmento di città privo di vita urbana dove si aggirano misteriose presenze. Eppure la documentazione storica in nostro possesso ci dice che la realtà di quella mattina è molto diversa. Intorno alle nove, in quel piccolo quadrante residenziale di Roma transitavano numerosi passanti e in strada circolavano diversi veicoli, tanto che alle varie fasi dell’azione brigatista, avvicinamento, assalto e sganciamento, assistono da posizioni diverse più di trenta testimoni. Nella stragrande maggioranza confermano la ricostruzione fatta dai militanti delle Brigate rosse che vi parteciparono. Di seguito il racconto di quella mattina ripreso dal capitolo 6 del libro, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Derviveapprodi, marzo 2017


th_1dd1d6fe940b0becc9a0299f6069644e_br_copEra ancora l’alba quando a Roma, il 16 marzo del 1978, un gruppo di dieci brigatisti si immerse nel traffico per raggiungere il luogo dell’appuntamento. Si trattava di un contadino, un tecnico, un assistente di sostegno, un artigiano, uno studente, due disoccupati, un commerciante e due operai. Appartenevano alle Colonne di Roma, Milano, Torino ed erano intenzionati a compiere un’azione armata senza precedenti: il rapimento di Aldo Moro come massima esemplificazione dell’«attacco al cuore dello Stato». L’appuntamento era all’incrocio tra via Mario Fani e via Stresa. Il piano prevedeva l’annientamento della scorta di Moro composta da tre poliziotti e due carabinieri: gli agenti Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e il caposcorta Francesco Zizzi, il maresciallo Oreste Leonardi e l’appuntato Domenico Ricci (1).
Tutto era stato meticolosamente pianificato in mesi e mesi di preparazione. Quel commando di dieci militanti, di età compresa tra i 20 e i 32 anni, diede prova di una notevole determinazione nel condurre a termine un’operazione che segnò la storia del Paese, un’operazione il cui investimento economico, per paradosso, non superò le 700.000 lire, appena l’equivalente di tre salari di allora di un operaio metalmeccanico (2).
La pianificazioneUna brigatista posizionata nella parte alta di via Fani avrebbe dovuto segnalare l’arrivo del convoglio di Moro alzando un mazzo di fiori per poi allontanarsi dal luogo. Di conseguenza un altro brigatista, fermo con la sua auto poco dopo l’incrocio con via San Gemini si sarebbe immediatamente mosso con la sua auto per posizionarsi davanti all’automobile che trasportava Moro e a quella della scorta che seguiva. Allo stop con via Stresa si sarebbe normalmente fermato. In quel momento altri quattro brigatisti divisi in due sottonuclei sarebbero entrati in azione sparando di sorpresa per eliminare gli agenti che proteggevano Moro. Mentre una brigatista tra via Stresa e via Fani doveva bloccare l’accesso al luogo dell’assalto (il «cancelletto inferiore»), un altro brigatista doveva entrare a marcia indietro da via Stresa in via Fani per caricare l’ostaggio. Gli ultimi due dovevano chiudere via Fani nella parte alta, operando il cosiddetto «cancelletto superiore», per tenere lontano dall’azione chiunque fosse sopraggiunto. I sottonuclei del gruppo di fuoco avevano compiti prestabiliti: il primo doveva colpirei carabinieri che accompagnavano Moro, il maresciallo Leonardi, ritenuto pericoloso per la sua esperienza, e l’autista, l’appuntato Ricci. Il secondo sottonucleo doveva attaccare la scorta della Pubblica sicurezza che occupava la seconda auto (Zizzi, Iozzino e Rivera). Contemporaneamente, il conducente della macchina ferma allo stop sarebbe sceso per rinforzare il «cancelletto inferiore». Alla fine della sparatoria i brigatisti avrebbero prelevato Moro e lasciato immediatamente la zona su tre auto dirette in una stessa direzione. La macchina ferma allo stop sarebbe stata abbandonata all’incrocio della sparatoria assieme a una quinta vettura dell’organizzazione, che serviva come riserva, parcheggiata poco più avanti su via Stresa.
Il primo progettoIn un primo momento le Brigate rosse avevano pensato di prelevare Moro all’interno della chiesa di Santa Chiara, in piazza dei Giochi Delfici. Il piano, «al quale era molto affezionato Morucci» (3), venne scartato perché il rischio di innescare un conflitto a fuoco in una zona che vedeva la presenza di una scuola elementare venne considerato troppo alto. La scorta infatti mostrava di essere molto vigile e reattiva quando Moro era fuori dalla sua macchina. Durante l’inchiesta una delle militanti dell’organizzazione che poi partecipò all’azione di via Fani si era introdotta nella luogo di culto fingendo di essere una devota recatasi a pregare. Inginocchiata a pochi passi dal Presidente del Consiglio nazionale della Dc aveva potuto osservare il comportamento degli agenti che proteggevano Moro. Abbandonati i banchi di preghiera per guadagnare l’uscita si era accorta che il poliziotto posizionato all’entrata della chiesa aveva subito portato la mano alla pistola. Agendo in quel luogo difficilmente i brigatisti avrebbero potuto avvalersi dell’effetto sorpresa.
Anche se misero da parte il piano iniziale, come vedremo più avanti i brigatisti preservarono lo stesso criterio che aveva ispirato la loro prima ipotesi di via di fuga: la scelta di un itinerario fuori dalle vie principali, su strade utilizzate solo dal traffico locale o addirittura private. Lo sganciamento sarebbe dovuto avvenire percorrendo via Riccardo Zandonai, una via chiusa da un condominio con due cancelli e una zona interna carrabile, che avrebbe permesso alle auto del commando di scomparire dalla vista, arrivando dopo il secondo cancello fino all’imbocco con via della Camilluccia, «a circa cinquanta metri dal largo tra il Cimitero Francese e via dei Colli della Farnesina», e da qui arrivare successivamente in via Trionfale, percorrendo un itinerario opposto a quello, ritenuto prevedibile, di eventuali inseguitori (4).
Via Fani, una vecchia conoscenza (il progetto di attentato a Pino Rauti)Il punto stradale successivamente scelto per l’azione, l’incrocio tra via Fani e via Stresa, era conosciuto da due militanti della Colonna romana presenti la mattina del 16 marzo 1978 che avevano avuto modo di studiarlo poco meno di quattro anni prima in occasione di una inchiesta condotta contro Pino Rauti, figura di spicco della destra neofascista della capitale. Nel giugno del 1974 un gruppo di militanti provenienti da Potere operaio romano e che avviava i primi passi verso la lotta armata, meditava di compiere un attentato contro Rauti. L’azione era stata concepita come rappresaglia perla strage compiuta il 28 maggio precedente in piazza della Loggia a Brescia, nel corso di una manifestazione antifascista indetta dai sindacati e dal locale Comitato antifascista, che costò la vita ad 8 persone e ne ferì 102 (5). L’esponente missino abitava in via Stresa, a ridosso dell’incrocio con via Fani, tanto che il 16 marzo 1978 fu tra i primi a telefonare al centralino della questura per dare l’allarme: alle 9.15 dichiarò di aver sentito alcune raffiche di mitra e visto due uomini in divisa da ufficiali dell’aeronautica e una Fiat 132 blu allontanarsi dal luogo dell’agguato (6). Osservando i movimenti di Rauti, il gruppo aveva notato che quando lasciava la propria abitazione percorreva via Stresa nel breve tratto che si immette su via della Camilluccia, dove a causa di uno stop la sua automobile era costretta a sostare. Di fronte allo stop, sul lato opposto della via, era fissato un grosso cartellone pubblicitario dietro al quale uno del gruppo si sarebbe appostato con un fucile di precisione Sig Sauer. L’attacco, preparato nei minimi dettagli, era giunto fino alla fase operativa ma il giorno previsto, arrivato sul luogo di raduno nel quartiere Prati, il responsabile militare del commando informò gli altri componenti che l’azione era stata annullata. Non sappiamo quanto l’inchiesta del 1974 abbia significato nell’economia del piano per rapire Moro, ma è un fatto che gli esponenti della Colonna romana erano già pratici della zona.
La preparazioneNel pomeriggio del 15 marzo 1978 vennero disposte lungo la via di fuga prescelta le vetture necessarie per effettuare il cambio macchine, più i due furgoni previsti per i trasbordi del rapito. Il furgoncino 850 Fiat color beige con doppio portellone laterale (per fare fronte a ogni evenienza e caricare il rapito da ambo i lati), pensato per il primo trasbordo da effettuare in piazza Madonna del Cenacolo, fu rubato da Bruno Seghetti in piazza dell’Orologio (Morucci nel suo “Memoriale” commette un errore di memoria e parla di piazza San Cosimato, luogo dove invece fu lasciato dopo l’azione). Tale furgone venne parcheggiato in via Bitossi, angolo via Bernardini, strada che taglia trasversalmente via dei Massimi. Si tratta di un quadrante tuttora estremamente appartato e tranquillo con circolazione prevalentemente locale. La Citroën Dyane azzurra che doveva aprire la strada al furgoncino Fiat 850 con a bordo Moro fu parcheggiata sul lato sinistro di via dei Massimi, dopo l’incrocio con via Bitossi. Il furgone previsto per il secondo trasbordo, probabilmente un Fiat 238 di colore chiaro, fu parcheggiato nella seconda parte della via di fuga, in zona Valle Aurelia, in uno slargo tra le vie Moricca, via Gaudino e via Vitelli. Anche le due Fiat 128 (una bianca ed una blu) furono lasciate in via Fani nel pomeriggio precedente l’azione, ciò perché si sarebbe corso il rischio di non poterle mettere nella giusta posizione la mattina successiva (7). La sera del 15 marzo furono distribuiti i giubbotti antiproiettile, i soprabiti da pilota, le mostrine, i berretti e le armi (8). Seghetti e Fiore si recarono sotto l’abitazione del fioraio Antonio Spiriticchio, in via Brunetti 42, per squarciare le gomme del suo furgone Ford Transit e impedirgli così di essere presente in via Fani, nei pressi dell’angolo con via Stresa al momento dell’azione. La Braghetti, in attesa nella base di via Montalcini che sarebbe diventata la prigione di Moro, ha scritto che non le era stato comunicato alcun piano di riserva:
«[…] sapevo solo che dovevo restare a casa, e tenermi pronta. Però avevo intuito che, nel caso di un esito parzialmente disastroso per noi, qualcuno, Valerio Morucci o Bruno Seghetti, avrebbe caricato Moro su una macchina e l’avrebbe portato in un altro appartamento dell’organizzazione, meno sicuro del nostro ma comunque “coperto” abbastanza per reggere un giorno e una notte. La mattina dopo avrebbero recuperato me in ufficio, dove mi era stato detto di tornare in qualunque circostanza, e Moro sarebbe infine arrivato dove ora si trovava .Una volta nascosto Moro, un compagno dell’esecutivo brigatista sarebbe arrivato a riempire i posti rimasti vacanti» (9).
La base di riservaIn effetti, un piano del genere esisteva. La base era quella di via Chiabrera 74 (soprannominato “l’Ufficio”), l’appartamento dove durante il sequestro si tennero tutte le riunioni di Colonna (10).
L’avvicinamentoI brigatisti giunsero in via Fani per strade diverse. L’Autobianchi A112 con cui Morucci e Bonisoli si recarono sul posto fu presa dopo un cambio macchina nella zona retrostante il mercato di via Andrea Doria, dove erano giunti partendo dalla base di via Chiabrera a bordo di una 127 (11). La A112, lasciata senza persone a bordo, serviva come mezzo di riserva nel caso fosse sorto un problema con le altre autovetture previste per lo sganciamento. La Fiat 128 Giardinetta bianca con targa diplomatica fu portata da Moretti e Balzerani intorno alle 7.00 (12). Usciti dalla base di via Gradoli passarono davanti all’abitazione di Moro per accertarsi che la scorta fosse sul posto, quindi l’auto venne parcheggiata con Moretti alla guida «sulla destra di via Fani subito dopo via Sangemini, venendo da via Trionfale e con il muso dell’auto in direzione dell’incrocio con via Stresa» (13). Da quel punto di osservazione l’ingresso in via Fani è visibile perché dopo via Sangemini la strada va in discesa. Sulla Fiat 132 blu che avrebbe portato via Moro giunsero Seghetti e Fiore provenienti dalla base di Borgo Pio. L’auto era stata rubata nei giorni precedenti tra via Cola di Rienzo e via Crescenzio. Fiore scese prima e Seghetti posizionò la 132 in via Stresa sull’angolo sinistro, a qualche metro dall’incrocio di via Fani, di fronte al bar Olivetti, con la posizione di guida rivolta verso l’alto di via Stresa, pronto a portarsi con una manovra di retromarcia accanto alla Fiat 130 di Moro. Dopo le prime raffiche riuscì a vedere Morucci intento a disinceppare il mitra e l’autista della Fiat 130 che tentava con ripetute manovre di trovare un varco, quindi scorse la raffica mortale (14). LaFiat 128 bianca con Casimirri al volante e Loiacono al suo fianco era posizionata sul lato destro di via Fani, poco più avanti della Fiat 128 targata Corpo diplomatico, con la direzione di guida rivolta verso il basso della via in modo da poter attivare la posizione di «cancelletto superiore» al momento dell’attacco (15). I due erano irregolari e arrivarono separatamente sul luogo con i mezzi pubblici. La Fiat 128 blu si trovava sul lato destro di via Fani, nella parte bassa, in prossimità dello stop «superato l’incrocio con via Stresa e in direzione contraria, con il muso dell’auto rivolto verso la direzione di provenienza delle auto di Moro» (16). Al suo interno c’era la Balzerani, pronta a uscire appena scattata l’azione per attivare il «cancelletto inferiore». Anche Gallinari arrivò sul posto con i mezzi pubblici. Da rilevare che per l’attacco e il primo allontanamento furono impiegate solo autovetture italiane di marca Fiat, più una eventuale di scorta modello Autobianchi. Dal momento del trasbordo in piazza Madonna del Cenacolo le vetture impiegate nel proseguimento dell’operazione, fatta eccezione per i furgoni che non erano in via Fani, sarebbero state solo modelli francesi: una Citroën Dyane e una Ami 8. La cosa fu pensata per depistare possibili segnalazioni di testimoni.
L’attaccoVia Fani, poco dopo le 9.00. «Marzia» (nome di battaglia di Rita Algranati) vide giungere le due macchine con Moro e la scorta (una Fiat 131 e un’Alfa Romeo). Segnalò ai suoi compagni l’arrivo dell’obiettivo con il gesto convenuto – il movimento di un mazzo di fiori – e lasciò la sua postazione su una Vespa 50. «Maurizio» (Mario Moretti) si immise come previsto con la sua auto (una Fiat 128 Giardinetta con targa Corpo diplomatico) nella careggiata, ponendosi alla testa del convoglio di Moro nel frattempo sopraggiunto. Scendendo lungo via Fani si trovò davanti una Fiat 500 che procedeva lentamente. Prima che le macchine del convoglio, abituate a viaggiare a velocità sostenuta, decidessero di superare entrambi, «Maurizio» effettuò la manovra di sorpasso e lo stesso fecero le due auto di Stato. Quel gesto forse facilitò la riuscita dell’azione: la naturalezza di quel sorpasso ingannò la scorta, fugando il sospetto sulla vera funzione che la Giardinetta avrebbe svolto qualche attimo dopo. L’effetto sorpresa fu determinante (17). Giunto allo stop «Maurizio» si fermò, così come fecero la Fiat 131 e l’Alfa Romeo. Immediatamente i quattro brigatisti in attesa, «Matteo» (Valerio Morucci), «Marcello» (Raffaele Fiore), «Giuseppe» (Prospero Gallinari) e «Luigi» (Franco Bonisoli) aprirono il fuoco, mentre la brigatista addetta al «cancelletto inferiore», «Sara» (Barbara Balzerani) fermava con il mitra una Fiat 500 appena sopraggiunta dalla parte bassa di via Fani guidata, lo si seppe poi, dal poliziotto Giovanni Intrevado, in quel momento fuori servizio. Contemporaneamente, sulla parte alta della via veniva formato il «cancelletto superiore»: «Camillo» (Alessio Casimirri) e «Otello» (Alvaro Loiacono) – che si era calato un sottocasco del tipo «mephisto» sul volto perché in passato era stato arrestato e il suo viso era fotosegnalato – bloccavano con una Fiat 128 ogni accesso armati di un fucile M1 Winchester. I primi spari colpirono l’autista dell’Alfetta che fece un balzo in avanti andando a tamponare la 131. L’appuntato Ricci, alla guida della 131, cominciò a suonare all’auto di «Maurizio» ferma davanti alla sua affinché ripartisse. Nel frattempo il mitra che doveva sparare a Ricci si inceppò (18), così come si inceppò anche l’altro che pochi istanti prima aveva ucciso il maresciallo Leonardi. Ricci ebbe il tempo di tentare una disperata manovra per portare in sicurezza la macchina, cercando di passare alla destra della 128. Per ostacolare quel tentativo «Maurizio», invece di scendere dall’auto come previsto per rafforzare il «cancelletto inferiore», rimase sull’auto premendo il piede sul freno e impedendo così alla 131 di forzare la morsa nella quale era finita. Poi anche Ricci venne raggiunto da alcuni colpi. Nel frattempo si inceppò anche un terzo mitra che stava sparando contro l’Alfetta e ciò permise a un componente della scorta, l’agente Iozzino, probabilmente già ferito, di scendere e tentare una reazione. Sparò verso un brigatista, ma venne ripetutamente colpito e cadde (19). Quando gli spari cessarono, «Maurizio» scese dalla 128 e prelevò Moro insieme a Matteo dalla 131 (secondo il piano doveva essere solo «Matteo» a farlo) trasferendolo poi nell’auto giunta in retromarcia da via Stresa guidata da «Claudio» (Bruno Seghetti) (20).
Da quel momento cominciò la seconda fase dell’operazione, la fuga, la cui pianificazione era stata affidata alla Colonna romana che aveva elaborato un itinerario fuori dagli assi di circolazione principali, su strade poco trafficate, viottoli, vie private.
1/continua

Note
1 Il maresciallo Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, gli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera morirono in via Fani. Il capo scorta Francesco Zizzi fu ricoverato in ospedale gravemente ferito, ma spirò alle 12.35 al Policlinico Gemelli. Si veda il referto medico in Commissione Moro 1, vol. 30, p. 327, f.to Giuliano Pelosi. Mario Moretti, Bruno Seghetti e Barbara Balzerani hanno ricostruito con gli autori del libro i momenti del sequestro nel corso di una serie di conversazioni tra il 2010 e il 2016.
2 Valerio Morucci, Memoriale Morucci, ACS, MIGS, busta 20, p. 34: «Il costo dell’azione di via Fani, escluso il costo dell’appartamento di via Montalcini, già in dotazione delle Brigate rosse, può farsi ammontare a circa700.000 lire. Esso risulta in parte dal biglietto, ritrovato in via Gradoli intestato a Fritz. In quel biglietto sono riportate le spese effettuate per le sirene, le tronchesi, le borse, gli impermeabili, i berretti e il resto necessari all’azione». Fritz era il nome convenzionale per indicare Moro tra coloro che si occuparono del sequestro.
3 Barbara Balzerani, colloquio con gli autori.
4 Ecco il racconto dettagliato del piano fatto da Valerio Morucci, Memoriale, op. cit., p. 22: «La macchina con Moro e quella di appoggio avrebbe dovuto percorrere via Zandonai che è una strada senza uscita (o meglio che ha un fondo cieco dopo una o due traverse laterali). In fondo a via Zandonai c’è un complesso residenziale con una porta metallica a scorrimento elettrico che consentiva il passaggio all’interno del complesso e lo sbocco successivo in via della Camilluccia, a circa cinquanta metri dal largo tra il Cimitero Francese evia dei Colli della Farnesina. Per l’accesso al residence era stata fatta una chiave falsa, ricavata da una chiave di lucchetto del telefono. La chiave serviva ad aprire la porta automatica del residence. Una volta superato, con le due auto, l’ingresso del residence dalla parte di via Zandonai, il cancello si sarebbe richiuso automaticamente impedendo il passaggio degli inseguitori, e si sarebbe arrivati (una volta usciti dall’altro cancello del residence), percorrendo via della Camilluccia, in via Trionfale; in una direzione opposta a quella prevedibile (da parte di eventuali inseguitori, e che sarebbe dovuta logicamente essere) via Zandonai, via del Nuoto, via Nemea, proseguendo fino a ponte Milvio».
5 Colloquio con Bruno Seghetti, 3 maggio 2016. Si tratta di quell’area politica che nei mesi successivi avrebbe dato vita a sigle come Fac (Formazioni armate comuniste) e Lapp (Lotta armata per il potere proletario) che operavano all’ombra del Comitato comunista centocelle (Cococe).
6 In una interrogazione parlamentare, la n. 3-02549, depositata il 17 marzo 1978 presso la Camera dei deputati, Pino Rauti riferiva di essere stato testimone oculare dopo la sparatoria della ««fuga» di un’auto ad altissima velocità lungo via Stresa, auto sulla quale poi – come subito dopo si è appreso – era stato «caricato» l’onorevole Moro», per poi lamentare la difficoltà riscontrata nel riuscire a mettersi in contatto con il 113e la sala operativa della questura, intasate dalle numerose chiamate che pervenivano in quel momento.
7 Sulla Fiat 128 blu Valerio Morucci fornisce una versione diversa, come si può leggere più avanti, V. Morucci, Memoriale, cit., p. 27.
8 Ivi, p. 28, «Ogni componente del nucleo arrivò in via Fani munito dell’arma da fuoco personale e del mitra. Ai due irregolari partecipanti all’azione le armi furono consegnate la mattina stessa del 16 marzo (da Seghetti)». Versione confermata anche dagli altri componenti dell’azione.
9 Anna Laura Braghetti con Paola Tavella in, Il prigioniero, Feltrinelli 2003 (prima edizione Mondadori1998), pp. 8-9.
10 Colloquio di Bruno Seghetti con gli autori.
11 Si veda in particolare la ricostruzione di Valerio Morucci: «Ci siamo spostati con la 127 bianca, che era inmia dotazione, con targa e documenti duplicati da un’auto appartenente ai servizi commerciali della Sip. I primi numeri di targa erano R2… Con questa auto arrivammo nella zona retrostante il mercato di via Andrea Doria. Qui lasciata la 127, prendemmo la A 112 con la quale ci recammo direttamente in via Stresa»; V. Morucci, op. cit., p. 27.
12 Valerio Morucci riferisce una versione contrastante corretta da Balzerani: «Il n. 1 (Moretti) arrivò in via Fani con la Fiat 128 blu assieme a Barbara Balzerani e risalì a piedi, senza fare alcun cenno e senza dare a vedere di conoscere gli altri, tutta via Fani controllando che tutti i componenti del nucleo fossero presenti»; Valerio Morucci, Memoriale, p. 27.
13 Barbara Balzerani, colloquio con gli autori.
14 Dichiarazioni di Bruno Seghetti agli autori.
15 Dichiarazioni di Bruno Seghetti agli autori. Una ricostruzione analoga viene fatta da Valerio Morucci, Memoriale, p. 29.
16 Le commissioni parlamentari d’inchiesta, compresa l’ultima, per spiegare il successo dell’attacco brigatista hanno a nostro giudizio sopravvalutato l’effetto del volume di fuoco proveniente da uno dei quattro mitra, l’ultimo in alto, nonostante l’imprecisione dei colpi da esso sparati. La circostanza, è stato ipotizzato, dimostrerebbe la presenza nel commando di un tiratore professionista, un «superkiller», la cui identità di volta in volta è stata attribuita ai Servizi, alla criminalità organizzata o alla Raf (Rote Armee Fraktion) tedesca. Il fatto che nella fase conclusiva dell’attacco, quando i primi tre brigatisti avevano cessato il fuoco, il quarto componente del sottonucleo superiore abbia aggirato il retro dell’Alfetta, portandosi sulla parte destra di via Fani, dove ha continuato a esplodere colpi con la sua pistola, ha fatto ipotizzare anche la presenza di un quinto sparatore addirittura «addestrato al tiro incrociato». Al contrario, elementi quali l’effetto sorpresa, il camuffamento della Fiat 128 Giardinetta con targa diplomatica che ha bloccato lo stop, la mimetizzazione dei quattro uomini del nucleo di fuoco sono stati sottovalutati.
17 R. Fiore, L’ultimo brigatista, con A. Grandi, Rizzoli, Milano 2007, p. 121.
18 Una chiazza di sangue venne rinvenuta sul sedile occupato dall’agente.
19 Conversazione degli autori con Mario Moretti tra il 2010 e il 2014. Un disegno dell’azione di via Fani realizzato da Moretti è agli atti della seconda Commissione di inchiesta sul Caso Moro; risale al 2006. Altri tre militanti ebbero un ruolo fondamentale nel sequestro: «Alexandra», (Adriana Faranda), che oltre alle fasi preparatorie, all’«inchiesta» e al logistico, fu insieme a Morucci la «postina» che recapitò i Comunicati dell’organizzazione e le lettere di Moro; «Camilla» (Anna Laura Braghetti), intestataria dell’appartamento di via Montalcini 8 nel quale venne imprigionato Moro nei 55 giorni del sequestro e «Gulliver» (Germano Maccari), il «quarto uomo» che prese parte alla logistica del sequestro, presidiò l’appartamento durante i 55 giorni interpretando il ruolo di marito della Braghetti, e prese parte alla esecuzione del presidente Dc nel garage dell’abitazione.
20 Dichiarazioni di Bruno Seghetti agli autori.

giovedì 15 marzo 2018

Miss Nikki Haley

La Thatcher yankee che mister Trump ha collocato sul seggiolone (con veto) al palazzo di vetro delle Nazioni Unite (ONU).



Perché, con quali meriti professionali e successi politici precedenti ci sia arrivata ... top secret.

Nell'incertezza, si sa, regna il gossip, e gli americani sul tema non sono certo gli ultimi arrivati .

mercoledì 14 marzo 2018

16 marzo

Ci avviciniamo alla ricorrenza del giorno in cui i PADRONI tennero il fiato e...strinsero il culo


venerdì 9 marzo 2018

Sulla socialdemocrazia

Abbiamo fatto della classe operaia il nostro referente principale perché è quella che da sempre opera,si sporca le mani in qualsiasi lavoro, rivendica, lotta e ci rimette pure la pelle.

Ci siamo ritrovati in un modo sintetico e virtuale dove i "nostri rappresentanti" sono dei signorini schizzinosi che teorizzano sulla inaccettabilità di possibili estremismi e nel contempo chiacchierano volentieri con i rappresentanti di chi ci sfrutta.
Tutto ciò in cambio di agi, lauti stipendi e, soprattutto, la certezza di non trovarsi mai col culo al freddo.

Grazie, "compagni" socialdemocratici di tutte le etnie.

Un caloroso vaffanculo, col sangue agli occhi.


L'opera d'arte...

http://www.militant-blog.org/?p=15149#more-15149



L’opera d’arte – in questo caso un vestito, ma il discorso varrebbe per un libro, un disco, un quadro e così via – non riflette la presunta superiorità del suo autore. Si “riflette da sé”, per così dire, vive di vita propria senza rintracciare somiglianze né corrispondenze necessarie. Il frutto del lavoro di un artista potrebbe essere di grande valore nonostante la mediocre vita del suo autore; potrebbe svelare i caratteri della realtà sociale nonostante l’autore sia per caso un gran reazionario; al contrario, l’autore potrebbe essere persona illuminata e intelligente, e il proprio lavoro modesto, inutile, rozzo. Ci siamo capiti?









giovedì 8 marzo 2018

La polizia picchia e uccide anche nella Svizzera "felix"

Mike Ben Peter, du Collectif Jean Dutoit a été tué par la police la nuit du mercredi 28 février à Lausanne. A la suite d’un contrôle près de la gare "il a été maîtrisé par la force puis menotté. Juste après son immobilisation, [il] a fait un malaise et perdu connaissance" apprend t-on dans le 24heures qui relaie la version policière. Blessé à la tête, il est décédé à l’hôpital. Une manifestation a immédiatement eu lieu le lendemain 1er mars. Une autre manifestation aura lieu samedi 10 mars à 13h à Lausanne pour Mike, contre le racisme et les violences policières.
Le Collectif Jean Dutoit est né en 2015 à Lausanne de la rencontre d’une centaine de personnes originaires d’Afrique de l’Ouest avec un groupe de citoyens suisses. Si le Collectif s’est formé dans le but de trouver un toit pour ses membres africains, il s’est engagé sur les thématiques politiques, sociales, économiques et culturelles qui conditionnent l’existence des personnes qui migrent en Suisse




Volantino per la Manifestazione a Losanna, sabato 10.3.2018

venerdì 2 marzo 2018

Orwell 2018

https://secoursrouge.org/Belgique-Projet-de-loi-pour-linfiltration-civile

E vengono pure a rompere i coglioni con la Corea del Nord o Putin.