domenica 5 novembre 2017

Comunione e Libera fatturazione (pilotata)


CARITAS, E IL MANDATO DA 75000 FRANCHI?

Perchè dare un mandato da 75000 franchi a Caritas per coordinare i volontari, introducendo dei costi per fare un lavoro che essi facevano già gratis?


Vi ricordate il mandato da 75’000 franchi che il Cantone concesse a Caritas? Ne avevamo già parlato a giugno (leggi qui). Senza chiedere un parere ai volontari, il Cantone decideva unilateralmente che ci fosse bisogno di un coordinatore. Il lavoro che prima si faceva gratis (per quello si chiamano volontari) di colpo aveva un costo di coordinamento.
L’importo sarebbe dovuto servire per pagare a tempo parziale una persona che avrebbe dovuto riunire i volontari sparsi per il territorio, guidarli, coordinarli e fornire loro supporto.
Insomma, per fare quello che facevano già da anni.
Il problema si poneva dal momento che gran parte dei volontari non avevano nessun bisogno e nessuna voglia di farsi coordinare. Tra il mandato di Caritas figurava il compito di stilare una mappatura dei volontari, che, diciamocelo, non sono le tribù dell’Orinoco in Amazzonia,  mappatura che era già stata fatta dal Cantone in precedenza, tra l’altro.
Oltretutto, buona parte dei volontari confluiscono nell’associazione DaRe – Diritto a Restare, che funge già autonomamente da cappello, con tre magazzini di materiale che distribuisce regolarmente a chi ha bisogno.
A presiedere l’incontro preliminare con le associazioni in cui si spiegava l’utilità della figura del coordinatore Caritas c’era Renato Bernasconi, direttore della Divisione per l’Azione Sociale e le Famiglie, quello che non avvisava Beltraminelli delle cene a Bormio e che mandava mail per fare licenziare il dipendente di Argo1 (leggi qui).
Il Bernasconi dava l’impressione di non avere bene in chiaro di chi fossero le volontarie con cui discuteva, trattandole alla stregua di simpatiche signore che fanno l’elemosina la domenica.
Molti invece conoscono l’impegno e l’energia di queste persone, che hanno affrontato l’accampamento di Como e il fiume di siriani alla stazione di Milano, non proprio degli sprovveduti. Ecco anche perché risulta surreale il dialogo tra Bernasconi e Lara Robbiani  Tognina, responsabile di DaRe, all’incontro, dialogo che abbiamo riassunto per voi. Perché è stata scelta Caritas?
Bernasconi: “Sul territorio era unico partner adatto a svolgere questo compito”
Tognina: “Ma noi lavoriamo in stretto contatto con voi da due anni…”
B:“Cosa fate?” 
T: “Alla Protezione Civile di Camorino i richiedenti ci hanno segnalato che non funziona l’aria condizionata”
Bernasconi si gira verso Carmela Fiorini:
“Come mai lo dicono a lei e non ai nostri funzionari?”
Cala un silenzio imbarazzante…interviene Carmela :
“Ma perchè in due anni hanno creato un forte legame e rapporto di fiducia con loro”.
Sospiro di Bernasconi:
“Ah!”.
La domanda rimane: perché dare un mandato da 75’000 franchi per un anno e mezzo a Caritas? Cosa fa attualmente l’associazione cattolica per guadagnare quei soldi? Soldi peraltro stanziati senza stabilire un mansionario? E ancora, lo Stato fornisce a Caritas del denaro che viene trasformato in buoni che i rifugiati possono “spendere “ presso i negozi dell’associazione. Buoni che erano stati soppressi in vista del mandato ma che ora sono stati ripristinati.
Fermo restando che nei magazzini dei volontari il materiale per profughi e asilanti è gratuito, ci si domanda quanto costi a una madre, per esempio, scendere dal centro di Bosco Gurin per andare a un negozio Caritas di Locarno, dove può spendere 50 franchi a prezzi non proprio concorrenziali. E teniamo presente che Caritas in queste faccende è molto fiscale, se hai un buono da 50 franchi non puoi spenderne 53. Altre domande che, se non fanno saltare il banco, creano comunque altri presupposti poco chiari intorno a queste faccende
Fonte:http://gas.social/2017/11/caritas-mandato-75000-franchi/

Come informa la televisione (anche nella Svizzera felix)

Alla spettabile redazione del Telegiornale


Egregi signori,

capisco che riassumere in tre minuti una rivoluzione come quella russa sia impresa ardua. Trovo quindi che, tutto sommato, il servizio di Francesca Mandelli messo in onda nella parte finale del telegiornale e dedicato alla rivoluzione russa, sia riuscito a dare un visione d’assieme di quanto successo in quel 1917 in Russia.
Ma se la capacità di sintesi è apprezzabile, non lo è l’orientamento politicamente delineato con il quale la giornalista ha costruito il suo servizio, tutto teso a dimostrare tre cose:
- la sete di sangue, quasi naturale, dei bolscevichi
- la contrapposizione tra una rivoluzione democratica e libertaria (quella del febbraio 2017) e una tendenzialmente antidemocratica e totalitaria (quella d’ottobre)
- l’assoluta continuità storica e politica tra la rivoluzione d’Ottobre e lo stalinismo.
Per dimostrare queste tre “tesi” Francesca Mandelli viene meno a principi giornalistici elementari, in particolare nell’uso della lingua: proprio lei che ha attirato la nostra attenzione,  in una squisita pubblicazione  (Il direttore in bikini), sull’uso improprio della lingua.
Un piccolo esempio. Nel servizio in questione si ricorda che, su decisione dei bolscevichi, “Lo zar e la sua famiglia saranno barbaramente trucidati l’anno successivo”. Non può non saltare agli occhi il rafforzativo linguistico rappresentato da quel “barbaramente”, linguisticamente pleonastico dato che “trucidare” significa già “uccidere barbaramente”(Treccani online, Gabrielli, e altri). Quell’aggiunta del “barbaramente” non può che tradire un punto di vista personale. Un punto di vista che al limite potrebbe anche essere condiviso quale giudizio storico (lo zarismo era ormai liquefatto a tal punto che difficilmente un superstite in linea ereditaria avrebbe potuto in qualche modo rilanciarlo); persino Trotskj, come possiamo leggere nelle sue opere, trovò quella decisione infelice.
Tuttavia, ci sembra giornalisticamente discutibile mischiare, nella stessa espressione,  il fatto (i Romanov sono stati uccisi) e il giudizio di valore (è un fatto deplorevole); anche perché il termine utilizzato “trucidare” implica già, come detto, un giudizio di valore. Senza voler dare lezioni di giornalismo (e meno che meno a Francesca Mandelli che, ci pare da quanto possiamo vedere, non ne ha alcun bisogno) ci sembra comunque di poter affermare che qui sia stata infranta una delle sue fondamentali regole.
D’altronde, se questo modo di procedere fosse giustificato, ogni volta che in un qualsiasi paese nel quale si applica la pena di morte vi fosse un’esecuzione, lo spirito democratico e sensibile dei giornalisti del TG dovrebbe spingerli ad aprire con la seguente notizia: “trucidato barbaramente a...”.O, ancora, in un servizio sugli ultimi  giorni del fascismo, parlando della fucilazione di Mussolini e Claretta Petacci a Milano, si dovrebbe affermare che vennero “barbaramente trucidati”. O no?

Ma quello qui richiamato e commentato è un, piccolo, esempio di quanto il servizio fosse su ben altre questioni “orientato”. E per capirlo basta riprendere le frasi finali del servizio: “In sei mesi Lenin conclude la pace separata con gli imperi centrali, elimina tutti i partiti e impone con il terrore il dominio bolscevico. Una rivoluzione liberticida quella di ottobre, in contrapposizione con i principi libertari espressi dalla rivoluzione di febbraio che negavano l’autorità e la centralizzazione. Da lì in poi la via è tracciata. L’impero russo  si trasformerà nell’impero sovietico con le sue utopie, le sue tragedie, la sua lunga scia di morte”.
Nemmeno Stéphane  Courtois, l’autore del Libro nero del comunismo, avrebbe immaginato una tale maligna capacità di sintesi che illustra le tre “tesi” alle quali ho accennato qui sopra. Posizioni che andrebbero e potrebbero essere contestate nel dettaglio, cosa che non ci è possibile in questa breve lettera.
Vorremmo soffermarci solo su  un aspetto che ci sembra decisivo: quello, contrariamente  alla tesi esposta nel servizio, della assoluta discontinuità tra la rivoluzione russa, le speranze e le politiche da essa avviate (seppur tra errori ed incertezze) e la degenerazione burocratica  sfociata nello stalinismo e nelle vicende che hanno portato, nel Novecento e tuttora, a far perdere ai termini “comunismo” e “socialismo” quella carica libertaria che Marx e la maggior parte della socialdemocrazia europea (del quale, non va dimenticato, tutto il movimento rivoluzionario russo si sente parte, perlomeno fino alla rivoluzione russa) gli avevano costantemente attribuito. Valgano per tutti gli scritti di Marx, ai quali Lenin si ispirerà, sulla Comune di Parigi.
Certo, i bolscevichi dopo la conquista del potere operarono scelte che oggi possiamo considerare degli errori, alcuni sicuramente fatali poiché avrebbero permesso lo sviluppo di quelle tendenze autoritarie e poi del regime staliniano con tutte le tragedie che esso ha comportato. Ma si è trattato di un processo lento, contraddittorio, favorito soprattutto dall’emergere, a partire dai primi mesi del 1918, di una guerra civile terribile, che mise a dura prova il giovane governo rivoluzionario, infliggendo alla popolazione sofferenze e privazioni che ricordavano quelle dei primi anni di guerra. È in questo contesto di una contro-rivoluzione armata, saldata dall’alleanza tra le forze interne e quelle internazionali (che difendevano i propri interessi in Russia, rimessi in discussione dalle decisioni del governo), che è possibile “capire” molte decisioni (compresi  quelli che ci appaiono degli errori in una prospettiva storica) del governo bolscevico.
Come si può vedere si tratta di un dibattito difficile, complesso e ancora oggi oggetto di profonde discussioni storiche e che non può  certo giustificare il tono perentorio, quasi apodittico, un po’ sicumerico delle frasi con le quali si regola la questione nella parte finale del servizio.


Fonte:mps.ti@bluewin.ch

giovedì 19 ottobre 2017

100 anni dall'Ottobre sovietico


Ottobre è un film del 1927 diretto da Sergej Mikhajlovič Ejzenštejn.

Guardalo su :

http://www.operaicontro.it/?p=9755748892




venerdì 13 ottobre 2017

La guerra messa a tacere dei Caraibi

Gli stati insulari dei Caraibi sono in prima linea in una guerra che non hanno provocato e nella quale sono i primi danneggiati: il cambio climatico. 
Anche4 se gli effetti si accumulano con il contagocce, catastrofi come il recente passaggio di due uragani sono un duro ricordo del poco che si sta facendo per vincere la battaglia. 
I principali mezzi di comunicazione descrivono con dettagli la devastazione provocata dai cicloni Irma e Maria nei Caraibi, dove più di un centinaio di persone sono morte, centinaia di migliaia hanno perso la casa e le infrastrutture di base di vari paesi sono state distrutte. 
Di fatto però, poco si parla del fatto che i cicloni tropicali sono sempre più distruttivi e molto meno del sottosviluppo che incontrano al loro passaggio in una regione vulnerabile ai disastri naturali. 
Le piccole nazioni insulari contano appena con industrie inquinanti, emettono una frazione dei gas con affetto serra e la loro traccia ecologica è tra le più basse del mondo. Indubbiamente la crescita del livello del mare minaccia la maggioranza dei loro abitanti che vivono vicino a spiagge paradisiache dove vanno in vacanza milioni di turisti. 
Nello stesso tempo l’aumento di quasi due gradi della temperatura dell’acqua tra il Tropico del Cancro e quello del Capricorno, provocato dall’attività umana, come coincidono gli scienziati è combustibile per le tormente che devastano  tra giugno e novembre.  
«Noi come paese, come regione, non abbiamo cominciato questa guerra contro la natura, non l’abbiamo provocata. La guerra è venuta da noi », ha assicurato di recente nelle  Nazioni Unite Roosevelt Skerrit, primo ministro di Dominica.
In un commosso discorso nell’Assemblea Generale, pochi giorni dopo che Maria aveva distrutto il suo paese  con venti a 250 Km l’ora, Skerrit ha chiamato le grandi potenze ad occuparsi di questi fatti.  
«Mentre i grandi paesi parlano le piccole isole soffrono» ha detto.  «Necessitiamo azioni e le necessitiamo adesso». 
Però  le notizie che giungono dal nord danno poche speranze. 
Il presidente del paese che ha maggiormente inquinato nella storia, gli Stati Uniti ha deciso d’abbandonare l’accordo di Parigi, il principale strumento internazionale per cercare di contenere l’aumento della temperatura globald nei prossimi decenni.
In quella stessa Assemblea Generale, il mandatario nordamericano si vantato dei  700.000 milioni di dollari che il suo paese destina alla guerra ogni anno.  
Con una frazione di questo denaro si potrebbero ricostruire i ponti e le strade distrutti da Irma e Maria, erigere scuole e ospedali capaci di resistere alla forza dei venti categoria 5, disegnare case resistenti alle minacce e creare un fondo per la nazioni colpite. 
I paesi industrializzati non solo sono responsabili e devono assumere i costi del cambio climatico che hanno provocato, ma hanno anche un debito storico per la schiavitù, il neocolonialismo e l’imperialismo che hanno lasciato sequele non meno visibili a scala globale. 
Le isole cominciano a togliersi di dosso i danni provocati dalle tormente. Combinano lo spirito degli indios dei Caraibi, che respinsero i conquistatori europei  per vari secoli, con il coraggio dei negri africani,  la cui cultura e identità hanno resistito a secoli d’oppressione. 
Non è la prima volta che lo fanno e se l’umanità non assume la propria responsabilità con il pianeta, non sarà nemmeno l’ultima ( Traduzione GM - Granma Int.)

A 100 anni dall'Ottobre sovietico


mercoledì 4 ottobre 2017

USA: Evviva, non è terrorismo!

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58 morti e 500 feriti dopo, il problema urgente del governo Usa era dichiarare al mondo che la strage “non è terrorismo”. Per anni ci è stato spiegato che il terrorismo, soprattutto quello degli ultimi due decenni, non aveva niente a che fare con la “politica” e poco con la religione. In realtà, ci spiegano i professori, la religione costituisce il pretesto attraverso cui individui instabili sfogano la propria insoddisfazione esistenziale. O qualcosa del genere. Eppure, quando si presenta davvero l’individuo “instabile”, eccolo ridotto a macchietta. Al cuore della questione, come abbiamo provato a scrivere più volte, c’è il fatto che il terrorismo fa paura proprio perché esprime una incontrovertibile natura politica, venga questa esplicitata o meno. L’uccisione di 58 persone (cioè più persone di tutti gli attentati in Europa nel 2017), e il ferimento di altre 500, rimangono confinate alla cronaca. La notizia durerà qualche ora, mentre domani ce ne saremmo già scordati. Perché? Perché Stephen Paddock, l’attentatore di Las Vegas, non è un militante politico e non combatte alcuna battaglia politica. L’Isis, al contrario, si, ed è questo che manda in corto circuito la gestione liberista della società. La sostanza politica dell’Isis è essenzialmente reazionaria, anche quando vorrebbe farsi portavoce degli interessi storici delle popolazioni arabe (come la lotta al colonialismo anglo-francese), ma questo incide poco sull’interpretazione di un soggetto in tutto e per tutto politico che utilizza metodi militari per portare avanti la propria posizione. L’Isis reintroduce nel mondo occidentale il conflitto e la violenza come opzione politica: questo è l’indicibile, per l’appunto mascherato nelle analisi mainstream che ascoltiamo e leggiamo sui principali organi di informazione. Tutti solerti nel negargli natura politica, eppure di fronte all’attentato terroristico (perché di questo si tratta a Las Vegas) veramente impolitico, tutti tirano il classico sospiro di sollievo: “non è terrorismo”, possiamo andare avanti. E’ questo, in buona sostanza, il motivo per cui cinque feriti in Canada fanno notizia più dei 58 morti a Las Vegas. O perché le 71 (settantuno) vittime per terrorismo negli Usa tra il 2005 e il 2015 fanno molto più scalporedelle 301.797 vittime per l’utilizzo di armi da fuoco nello stesso periodo.http://www.militant-blog.org