domenica 5 novembre 2017
Come informa la televisione (anche nella Svizzera felix)
Alla spettabile redazione del Telegiornale
Egregi signori,
capisco che riassumere in tre minuti una rivoluzione come quella russa sia impresa ardua. Trovo quindi che, tutto sommato, il servizio di Francesca Mandelli messo in onda nella parte finale del telegiornale e dedicato alla rivoluzione russa, sia riuscito a dare un visione d’assieme di quanto successo in quel 1917 in Russia.
Ma se la capacità di sintesi è apprezzabile, non lo è l’orientamento politicamente delineato con il quale la giornalista ha costruito il suo servizio, tutto teso a dimostrare tre cose:
- la sete di sangue, quasi naturale, dei bolscevichi
- la contrapposizione tra una rivoluzione democratica e libertaria (quella del febbraio 2017) e una tendenzialmente antidemocratica e totalitaria (quella d’ottobre)
- l’assoluta continuità storica e politica tra la rivoluzione d’Ottobre e lo stalinismo.
Per dimostrare queste tre “tesi” Francesca Mandelli viene meno a principi giornalistici elementari, in particolare nell’uso della lingua: proprio lei che ha attirato la nostra attenzione, in una squisita pubblicazione (Il direttore in bikini), sull’uso improprio della lingua.
Un piccolo esempio. Nel servizio in questione si ricorda che, su decisione dei bolscevichi, “Lo zar e la sua famiglia saranno barbaramente trucidati l’anno successivo”. Non può non saltare agli occhi il rafforzativo linguistico rappresentato da quel “barbaramente”, linguisticamente pleonastico dato che “trucidare” significa già “uccidere barbaramente”(Treccani online, Gabrielli, e altri). Quell’aggiunta del “barbaramente” non può che tradire un punto di vista personale. Un punto di vista che al limite potrebbe anche essere condiviso quale giudizio storico (lo zarismo era ormai liquefatto a tal punto che difficilmente un superstite in linea ereditaria avrebbe potuto in qualche modo rilanciarlo); persino Trotskj, come possiamo leggere nelle sue opere, trovò quella decisione infelice.
Tuttavia, ci sembra giornalisticamente discutibile mischiare, nella stessa espressione, il fatto (i Romanov sono stati uccisi) e il giudizio di valore (è un fatto deplorevole); anche perché il termine utilizzato “trucidare” implica già, come detto, un giudizio di valore. Senza voler dare lezioni di giornalismo (e meno che meno a Francesca Mandelli che, ci pare da quanto possiamo vedere, non ne ha alcun bisogno) ci sembra comunque di poter affermare che qui sia stata infranta una delle sue fondamentali regole.
D’altronde, se questo modo di procedere fosse giustificato, ogni volta che in un qualsiasi paese nel quale si applica la pena di morte vi fosse un’esecuzione, lo spirito democratico e sensibile dei giornalisti del TG dovrebbe spingerli ad aprire con la seguente notizia: “trucidato barbaramente a...”.O, ancora, in un servizio sugli ultimi giorni del fascismo, parlando della fucilazione di Mussolini e Claretta Petacci a Milano, si dovrebbe affermare che vennero “barbaramente trucidati”. O no?
Ma quello qui richiamato e commentato è un, piccolo, esempio di quanto il servizio fosse su ben altre questioni “orientato”. E per capirlo basta riprendere le frasi finali del servizio: “In sei mesi Lenin conclude la pace separata con gli imperi centrali, elimina tutti i partiti e impone con il terrore il dominio bolscevico. Una rivoluzione liberticida quella di ottobre, in contrapposizione con i principi libertari espressi dalla rivoluzione di febbraio che negavano l’autorità e la centralizzazione. Da lì in poi la via è tracciata. L’impero russo si trasformerà nell’impero sovietico con le sue utopie, le sue tragedie, la sua lunga scia di morte”.
Nemmeno Stéphane Courtois, l’autore del Libro nero del comunismo, avrebbe immaginato una tale maligna capacità di sintesi che illustra le tre “tesi” alle quali ho accennato qui sopra. Posizioni che andrebbero e potrebbero essere contestate nel dettaglio, cosa che non ci è possibile in questa breve lettera.
Vorremmo soffermarci solo su un aspetto che ci sembra decisivo: quello, contrariamente alla tesi esposta nel servizio, della assoluta discontinuità tra la rivoluzione russa, le speranze e le politiche da essa avviate (seppur tra errori ed incertezze) e la degenerazione burocratica sfociata nello stalinismo e nelle vicende che hanno portato, nel Novecento e tuttora, a far perdere ai termini “comunismo” e “socialismo” quella carica libertaria che Marx e la maggior parte della socialdemocrazia europea (del quale, non va dimenticato, tutto il movimento rivoluzionario russo si sente parte, perlomeno fino alla rivoluzione russa) gli avevano costantemente attribuito. Valgano per tutti gli scritti di Marx, ai quali Lenin si ispirerà, sulla Comune di Parigi.
Certo, i bolscevichi dopo la conquista del potere operarono scelte che oggi possiamo considerare degli errori, alcuni sicuramente fatali poiché avrebbero permesso lo sviluppo di quelle tendenze autoritarie e poi del regime staliniano con tutte le tragedie che esso ha comportato. Ma si è trattato di un processo lento, contraddittorio, favorito soprattutto dall’emergere, a partire dai primi mesi del 1918, di una guerra civile terribile, che mise a dura prova il giovane governo rivoluzionario, infliggendo alla popolazione sofferenze e privazioni che ricordavano quelle dei primi anni di guerra. È in questo contesto di una contro-rivoluzione armata, saldata dall’alleanza tra le forze interne e quelle internazionali (che difendevano i propri interessi in Russia, rimessi in discussione dalle decisioni del governo), che è possibile “capire” molte decisioni (compresi quelli che ci appaiono degli errori in una prospettiva storica) del governo bolscevico.
Come si può vedere si tratta di un dibattito difficile, complesso e ancora oggi oggetto di profonde discussioni storiche e che non può certo giustificare il tono perentorio, quasi apodittico, un po’ sicumerico delle frasi con le quali si regola la questione nella parte finale del servizio.
Fonte:mps.ti@bluewin.ch
martedì 31 ottobre 2017
giovedì 19 ottobre 2017
100 anni dall'Ottobre sovietico
Ottobre è un film del 1927 diretto da Sergej Mikhajlovič Ejzenštejn.
Guardalo su :
http://www.operaicontro.it/?p=9755748892
venerdì 13 ottobre 2017
La guerra messa a tacere dei Caraibi
Gli stati insulari dei Caraibi sono in prima linea in una guerra che non hanno provocato e nella quale sono i primi danneggiati: il cambio climatico.
Anche4 se gli effetti si accumulano con il contagocce, catastrofi come il recente passaggio di due uragani sono un duro ricordo del poco che si sta facendo per vincere la battaglia.
I principali mezzi di comunicazione descrivono con dettagli la devastazione provocata dai cicloni Irma e Maria nei Caraibi, dove più di un centinaio di persone sono morte, centinaia di migliaia hanno perso la casa e le infrastrutture di base di vari paesi sono state distrutte.
Di fatto però, poco si parla del fatto che i cicloni tropicali sono sempre più distruttivi e molto meno del sottosviluppo che incontrano al loro passaggio in una regione vulnerabile ai disastri naturali.
Le piccole nazioni insulari contano appena con industrie inquinanti, emettono una frazione dei gas con affetto serra e la loro traccia ecologica è tra le più basse del mondo. Indubbiamente la crescita del livello del mare minaccia la maggioranza dei loro abitanti che vivono vicino a spiagge paradisiache dove vanno in vacanza milioni di turisti.
Nello stesso tempo l’aumento di quasi due gradi della temperatura dell’acqua tra il Tropico del Cancro e quello del Capricorno, provocato dall’attività umana, come coincidono gli scienziati è combustibile per le tormente che devastano tra giugno e novembre.
«Noi come paese, come regione, non abbiamo cominciato questa guerra contro la natura, non l’abbiamo provocata. La guerra è venuta da noi », ha assicurato di recente nelle Nazioni Unite Roosevelt Skerrit, primo ministro di Dominica.
In un commosso discorso nell’Assemblea Generale, pochi giorni dopo che Maria aveva distrutto il suo paese con venti a 250 Km l’ora, Skerrit ha chiamato le grandi potenze ad occuparsi di questi fatti.
«Mentre i grandi paesi parlano le piccole isole soffrono» ha detto. «Necessitiamo azioni e le necessitiamo adesso».
Però le notizie che giungono dal nord danno poche speranze.
Il presidente del paese che ha maggiormente inquinato nella storia, gli Stati Uniti ha deciso d’abbandonare l’accordo di Parigi, il principale strumento internazionale per cercare di contenere l’aumento della temperatura globald nei prossimi decenni.
In quella stessa Assemblea Generale, il mandatario nordamericano si vantato dei 700.000 milioni di dollari che il suo paese destina alla guerra ogni anno.
Con una frazione di questo denaro si potrebbero ricostruire i ponti e le strade distrutti da Irma e Maria, erigere scuole e ospedali capaci di resistere alla forza dei venti categoria 5, disegnare case resistenti alle minacce e creare un fondo per la nazioni colpite.
I paesi industrializzati non solo sono responsabili e devono assumere i costi del cambio climatico che hanno provocato, ma hanno anche un debito storico per la schiavitù, il neocolonialismo e l’imperialismo che hanno lasciato sequele non meno visibili a scala globale.
Le isole cominciano a togliersi di dosso i danni provocati dalle tormente. Combinano lo spirito degli indios dei Caraibi, che respinsero i conquistatori europei per vari secoli, con il coraggio dei negri africani, la cui cultura e identità hanno resistito a secoli d’oppressione.
Non è la prima volta che lo fanno e se l’umanità non assume la propria responsabilità con il pianeta, non sarà nemmeno l’ultima ( Traduzione GM - Granma Int.)
Anche4 se gli effetti si accumulano con il contagocce, catastrofi come il recente passaggio di due uragani sono un duro ricordo del poco che si sta facendo per vincere la battaglia.
I principali mezzi di comunicazione descrivono con dettagli la devastazione provocata dai cicloni Irma e Maria nei Caraibi, dove più di un centinaio di persone sono morte, centinaia di migliaia hanno perso la casa e le infrastrutture di base di vari paesi sono state distrutte.
Di fatto però, poco si parla del fatto che i cicloni tropicali sono sempre più distruttivi e molto meno del sottosviluppo che incontrano al loro passaggio in una regione vulnerabile ai disastri naturali.
Le piccole nazioni insulari contano appena con industrie inquinanti, emettono una frazione dei gas con affetto serra e la loro traccia ecologica è tra le più basse del mondo. Indubbiamente la crescita del livello del mare minaccia la maggioranza dei loro abitanti che vivono vicino a spiagge paradisiache dove vanno in vacanza milioni di turisti.
Nello stesso tempo l’aumento di quasi due gradi della temperatura dell’acqua tra il Tropico del Cancro e quello del Capricorno, provocato dall’attività umana, come coincidono gli scienziati è combustibile per le tormente che devastano tra giugno e novembre.
«Noi come paese, come regione, non abbiamo cominciato questa guerra contro la natura, non l’abbiamo provocata. La guerra è venuta da noi », ha assicurato di recente nelle Nazioni Unite Roosevelt Skerrit, primo ministro di Dominica.
In un commosso discorso nell’Assemblea Generale, pochi giorni dopo che Maria aveva distrutto il suo paese con venti a 250 Km l’ora, Skerrit ha chiamato le grandi potenze ad occuparsi di questi fatti.
«Mentre i grandi paesi parlano le piccole isole soffrono» ha detto. «Necessitiamo azioni e le necessitiamo adesso».
Però le notizie che giungono dal nord danno poche speranze.
Il presidente del paese che ha maggiormente inquinato nella storia, gli Stati Uniti ha deciso d’abbandonare l’accordo di Parigi, il principale strumento internazionale per cercare di contenere l’aumento della temperatura globald nei prossimi decenni.
In quella stessa Assemblea Generale, il mandatario nordamericano si vantato dei 700.000 milioni di dollari che il suo paese destina alla guerra ogni anno.
Con una frazione di questo denaro si potrebbero ricostruire i ponti e le strade distrutti da Irma e Maria, erigere scuole e ospedali capaci di resistere alla forza dei venti categoria 5, disegnare case resistenti alle minacce e creare un fondo per la nazioni colpite.
I paesi industrializzati non solo sono responsabili e devono assumere i costi del cambio climatico che hanno provocato, ma hanno anche un debito storico per la schiavitù, il neocolonialismo e l’imperialismo che hanno lasciato sequele non meno visibili a scala globale.
Le isole cominciano a togliersi di dosso i danni provocati dalle tormente. Combinano lo spirito degli indios dei Caraibi, che respinsero i conquistatori europei per vari secoli, con il coraggio dei negri africani, la cui cultura e identità hanno resistito a secoli d’oppressione.
Non è la prima volta che lo fanno e se l’umanità non assume la propria responsabilità con il pianeta, non sarà nemmeno l’ultima ( Traduzione GM - Granma Int.)
mercoledì 4 ottobre 2017
USA: Evviva, non è terrorismo!
hthttp://www.militant-blog.orgtp://www.militant-blog.organt-blogttp://www.militilitant-blog.orgttp://www.militant-bhttp://www.militant-blog.orghttp://www.militant-blog.orglog.orghttp://www.militant-blog.org
http://www.militant-blog.org58 morti e 500 feriti dopo, il problema urgente del governo Usa era dichiarare al mondo che la strage “non è terrorismo”. Per anni ci è stato spiegato che il terrorismo, soprattutto quello degli ultimi due decenni, non aveva niente a che fare con la “politica” e poco con la religione. In realtà, ci spiegano i professori, la religione costituisce il pretesto attraverso cui individui instabili sfogano la propria insoddisfazione esistenziale. O qualcosa del genere. Eppure, quando si presenta davvero l’individuo “instabile”, eccolo ridotto a macchietta. Al cuore della questione, come abbiamo provato a scrivere più volte, c’è il fatto che il terrorismo fa paura proprio perché esprime una incontrovertibile natura politica, venga questa esplicitata o meno. L’uccisione di 58 persone (cioè più persone di tutti gli attentati in Europa nel 2017), e il ferimento di altre 500, rimangono confinate alla cronaca. La notizia durerà qualche ora, mentre domani ce ne saremmo già scordati. Perché? Perché Stephen Paddock, l’attentatore di Las Vegas, non è un militante politico e non combatte alcuna battaglia politica. L’Isis, al contrario, si, ed è questo che manda in corto circuito la gestione liberista della società. La sostanza politica dell’Isis è essenzialmente reazionaria, anche quando vorrebbe farsi portavoce degli interessi storici delle popolazioni arabe (come la lotta al colonialismo anglo-francese), ma questo incide poco sull’interpretazione di un soggetto in tutto e per tutto politico che utilizza metodi militari per portare avanti la propria posizione. L’Isis reintroduce nel mondo occidentale il conflitto e la violenza come opzione politica: questo è l’indicibile, per l’appunto mascherato nelle analisi mainstream che ascoltiamo e leggiamo sui principali organi di informazione. Tutti solerti nel negargli natura politica, eppure di fronte all’attentato terroristico (perché di questo si tratta a Las Vegas) veramente impolitico, tutti tirano il classico sospiro di sollievo: “non è terrorismo”, possiamo andare avanti. E’ questo, in buona sostanza, il motivo per cui cinque feriti in Canada fanno notizia più dei 58 morti a Las Vegas. O perché le 71 (settantuno) vittime per terrorismo negli Usa tra il 2005 e il 2015 fanno molto più scalporedelle 301.797 vittime per l’utilizzo di armi da fuoco nello stesso periodo.http://www.militant-blog.org
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